Il Ponte Morandi era marcio fin dall'inizio: le vere cause del crollo
Un operaio, un capomastro, un capocantiere? Difficile dirlo, ad oltre mezzo secolo di distanza. Sta di fatto che qualcuno nel 1967, a pochi mesi dal collaudo dell'opera commissionata dall'Anas e realizzata dalla Società italiana per Condotte d'Acqua, ha riempito la parte terminale di un tirante della pila 9 del Ponte Morandi (quello, per intendersi, che il 14 agosto del 2018 è andato in pezzi, provocando il cedimento della struttura e la morte di 43 persone) con pezzi di legno, iuta e carta da imballaggi. Tecnica consolidata? Innovazione ingegneristica? Macché, materiale di fortuna per tentar e di rimediare ad un errato posizionamento di cavi metallici e guaine all'interno del getto di calcestruzzo che ha provocato cavità e difformità in grado di compromettere l'integrità, la resistenza e la protezione alla corrosione dell'intero blocco. E' da questo difetto di costruzione che bisogna partire per capire fino in fondo non solo cosa sia successo al Viadotto di Polcevera quella maledetta vigilia di ferragosto, ma anche cosa sia successo prima. Quando, come sostengono gli stessi periti del tribunale di Genova, si potevano mettere in atto azioni e comportamenti che, «con elevata probabilità, avrebbero impedito il verificarsi dell'evento». Sì, avete capito bene. La tragedia, forse, poteva essere evitata. Vediamo perché. Che il cedimento sia stato determinato dal collasso di quella parte della struttura sembra assodato. Una corrosione, attenti bene, «che ha avuto luogo in zone di cavità e mancata iniezione formatesi all'atto della costruzione» e che è cominciata «sin dai primi anni di vita» dell'opera.
CAVI PRIMARI
Prima domanda: chi sapeva? Che i cavi primari di uno degli stralli (così si chiamano i tiranti) fossero totalmente fuori posto e, per questo motivo, in uno stato di avanzato ammaloramento e che la parte terminale fosse piena di robaccia (tecnicamente "materiali estranei") è stato accertato ufficialmente solo qualche mese fa, nel corso delle analisi effettuate dai tecnici nominati dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Genova. Ma che il fatto fosse ignoto a chi ha posato le prime pietre è tutto da verificare. Scrivono i periti: «Il 132 (la sella lato Sud posta in sommità della antenna della pila 9 che fungeva da supporto ai tiranti), fra tutti i reperti analizzati, ha evidenziato la presenza di un rilevante difetto di costruzione. Considerata l'entità del difetto e gli effetti che esso produsse, sicuramente esso fu ben visibile e percepibile da parte degli operai e del direttore del cantiere, se il difetto fosse stato condiviso con il progettista e con il direttore dei lavori non si può sapere, però, considerato che esso può essere stata la causa di alcune modifiche introdotte nella costruzione dei tiranti, non si può escludere che la circostanza fosse stata condivisa con il progettista e con il direttore dei lavori per decidere le azioni da intraprendere». Ipotesi impossibili da confermare, almeno in base a quella poca documentazione dell'epoca scovata a fatica dalla Gdf negli archivi dell'Anas, di Aspi, nelle direzioni territoriali delle società coinvolte e, in alcuni casi, anche nei cassetti delle famiglie dei progettisti. Quello che si sa con certezza è che in fase di collaudo l'unica tà assoluta dei cavi fornita dalle decine di centimetri di solido calcestruzzo precompresso che li circondano. Da un punto di vista pratico, quelle evidenze spingono Zannetti a chiedere che le pile e i tiranti vengano interamente ricoperti con vernici idrorepellenti.
INFILTRAZIONI
Negli stessi anni, anche lo stesso Morandi si arrende all'evidenza. In un articolo del '79 ammette che «le fessure possono a lungo termine provocare danni alla conservazione della armatura a causa dell'infiltrazione di umidità ed altre cose». Identico il consiglio: è opportuno sigillare e coprire le superfici esterne. Passano gli anni e la situazione peggiora. Nel 1981 Morandi scrive una relazione sullo stato di conservazione del viadotto in cui evidenzia, tra le altre cose, «danni al calcestruzzo con distacchi di parti di esso per effetto di ossidazione delle armature», «fessurazioni di solette, pareti, pilastri, tiranti», «aggressione di natura fisico-chimica delle superfici esterne del calcestruzzo». Pure lui, questa volta, vede sulle antenne e sui tiranti «qualche traccia di infiltrazione d'acqua con macchie di ruggine». Complessivamente, il ponte è oggetto di un processo di degradazione «tale da temere nel prosieguo qualche incidenza alla sua consistenza statica». Quanto ai tiranti, Morandi conferma la necessità di rivestirli «con vernice impermeabilizzante ad alta resistenza chimica» e ne consiglia anche una accurata ispezione con i raggi x (che d'altra parte non avrebbero mai rilevato il difetto della pila 9). Non è tutto. Chiede anche che vengano completate le iniezioni all'interno delle guaine «qualora queste risultino mancanti o difettose». Il che implica, scrive il perito delle parti civili, «che avesse per lo meno il dubbio che in fase di esecuzione le cose non fossero andate per il verso giusto». Non è finita. Nel 1985 scende in campo il capo della manutenzione di Autostrade Gabriele Camomilla, che confonde un po' le acque. L'ingegnere stende una dettagliata relazione sugli interventi da fare con tre priorità. Verificare lo stato di conservazione degli stralli è l'ultima. Anche lui, comunque, dopo aver suggerito di eseguire dei saggi per «valutare lo stato dei cavi solo se i calcestruzzi saranno risultati più o meno nelle condizioni di funzionamento previste», sostiene che «sarà probabilmente necessario un provvedimento di protezione (verniciatura) con materiali elastici». Sebbene, avverte, «limitatamente alle zone più degradate». Camomilla, malgrado proprio a lui l'allora Società Autostrade Concessioni e Costruzioni abbia affidato la sicurezza del ponte, sembra il meno preoccupato, ma è l'ennesimo tecnico che invoca l'impermeabilizzazione. Conseguenze? Nessuna. Interventi? Idem. Fossero o meno i tecnici a conoscenza del vizio originario e fossero o meno tutti preda di un timore reverenziale nei confronti del maestro, la storia del ponte arriva al suo primo bivio. Zannetti prima, lo stesso Morandi poi e infine Camomilla lasciano intendere che il ponte potrebbe avere problemi ai tiranti e dicono che necessita di una impermeabilizzazione. Operazione che, con tutta probabilità, avrebbe potuto ritardare di molto la corrosione dei cavi primari all'interno della pila 9. Perché nessuno (all'epoca Autostrade, società dell'Iri, è concessionaria e l'Anas concedente) muove un dito? Mistero.
Di seguito, la seconda parte dell'inchiesta di Libero
Gli anni passano e l'ansia nei confronti dello stato di salute generale del ponte cresce. Tra il 1992 e il 1993, a 18 anni dal primo allarme, si decide finalmente che il viadotto ha bisogno di un intervento radicale. A dirigere il lavori c'è Francesco Pisani, allievo di Morandi. Anche qui qualcosa non quadra. Il viadotto, scrive Rugarli, «fu sottoposto a un importante intervento di consolidamento che riguardò in specie il sistema bilanciato numero 11, che ricevette un nuovo sistema di tiranti esterni in aggiunta a quelli posti internamente agli stralli in calcestruzzo armato. Alcuni interventi di placcaggio metallico furono messi in opera anche sulla pila 10, ma senza sostituire i cavi». Insomma, si rafforza tutto tranne la pila 9. In compenso viene realizzata, forse troppo tardi, la tanto invocata impermeabilizzazione di tutta la struttura. Ma in agguato c'è un altro bivio fatale. Subito dopo l'inizio dei lavori di manutenzione arriva quello che Rugarli definisce «uno dei più drammaticamente sbagliati documenti reperibili in tutta la sterminata documentazione relativa al crollo del ponte Morandi». Si tratta di un articolo comparso nel 1994 sulla rivista Autostrade firmato, tra gli altri, dai massimi esperti del settore, il professor Martinez y Cabrera (ordinario della cattedra di Ponti e Grandi strutture del Politecnico di Milano, validatore nonché collaudatore del restauro del '93) e l'ingegnere Pisani (allievo ed erede di Morandi), che giudica il ponte in buono stato e sentenzia che «la condizione limite per la pila 9 viene stimata al 2030. Tale valore viene interpretato come tempo di rivalutazione dello stato della struttura».
Sicurezza - A garantire la sicurezza del viadotto, da allora in poi, vengono prescritte le indagini riflettometriche (Rimt). Un metodo che si è poi rivelato inefficace. Siamo di fronte all'ennesimo bivio. Come ha spiegato anche recentemente l'ingegnere Emanuele Codacci-Pisanelli, pure lui allievo di Morandi, che nel 1991, chiamato da Autostrade, scoprì alcune cavità nella sella 11, «sin dal 1992 si è dato corso ad una quantità di prove riflettometriche dai costi elevatissimi e i cui risultati si sono manifestati del tutto inutili. Non sono i finanziamenti sulle indagini che sono mancati, ciò che è mancata è la capacità di dar corso a controlli utili ed affidabili». Dopo il 1993, il nulla. «Il consolidamento del sistema bilanciato 11 e in parte del 10 e le temerarie affermazioni in merito alla rivedibilità dello stato del sistema 9 messe nero su bianco nell'articolo del 1994», spiega Rugarli, «produssero come effetto un lunghissimo periodo in cui non si fece nulla di sostanziale». Anche nella «errata idea che che le prove riflettometriche valessero a qualcosa». Nel 1999 entrano in scena i Benetton. Le autostrade vengono privatizzate e, con esse, anche la gestione del ponte, che viene consegnato così, senza istruzioni per l'uso, come fosse un monolocale. Il gruppo di Ponzano Veneto prosegue sulla strada già tracciata. Quella dello spreco inutile di risorse con il Rimt. D'altra parte, come afferma Rugarli, il getto di calcestruzzo «specificatamente pensato per proteggere i cavi di acciaio diventa una formidabile barriera atta a rendere ostica l'indagine sullo stato dei trefoli in acciaio che sostenevano i tre sistemi bilanciati». E in ogni caso, senza una segnalazione specifica, sarebbe stato impossibile individuare un difetto di costruzione che, come hanno dimostrato i periti del tribunale, era localizzato ad un metro di profondità e sarebbe stato visibile solo attraverso scassi locali di almeno 40 centimetri.
Nessuna criticità - Si arriva così al 2015, quando finalmente parte il progetto di retrofitting strutturale del Polcevera. Contestualmente Aspi affida a Cesi, del gruppo Enel, un audit sullo stato degli stralli e sulla correttezza dei metodi di indagine. Risultato: tutto a posto, nessuna criticità e metodologie di ispezione giudicati efficaci. Due anni dopo il professor Carmelo Gentile, docente del Politecnico di Milano, nella sua relazione, commissionata sempre da Autostrade, evidenzia che i fenomeni di corrosione potrebbero essere presenti solo sui cavi secondari e non su quelli primari, quelli che tengono in piedi il viadotto. Nel 2018 il ponte cade, a pochi mesi dalle previste opere di consolidamento e rinforzo (retrofitting) che avrebbero coinvolto anche lo strallo 9. Il dito, come è facile che sia, è puntato sugli ultimi gestori del ponte. Eppure, è stato dimostrato dai periti del tribunale di Genova che per scoprire quel vizio originario sarebbero stati necessari interventi di scasso su una parte specifica di uno strallo. In altre parole, come trovare un ago in un pagliaio. La prima domanda che viene in mente, al di là del possibile (e non accertato) colpo di grazia inferto dalla bobina di acciaio da 30 tonnellate persa dal tir che potrebbe aver sbandato sul viadotto il 14 agosto, è: se non ci fosse stato quel difetto di costruzione il ponte sarebbe crollato lo stesso? Pare di no. Ma è la seconda domanda quella più importante: cosa sarebbe accaduto se fossero stati messi in atto tempestivamente gli interventi di manutenzione e protezione suggeriti fin dal 1975 dai tecnici e dallo stesso Morandi? Impossibile rispondere con certezza. Ma il quesito rimanda direttamente a quelle numerose biforcazioni, vere e proprie sliding doors della storia del ponte, che conmolta probabilità avrebbero cambiato il futuro. Qualcuno non ha denunciato il vizio di costruzione, qualcuno non ha preso sul serio l'allarme sull'impermeabilizzazione, qualcuno non ha voluto mettere in discussione l'opera del maestro, qualcuno ha fatto dei pesanti errori di valutazione. La sintesi, come scrive Rugarli, è che per oltre 50 anni di vita del viadotto mai nessuno dei tanti tecnici chiamati al capezzale del Polcevera ha mai espresso dubbi o timori sul fatto che i cavi primari potessero essere corrosi. E la beffa è che quasi tutto è successo mentre c'era lo Stato a comandare. Lo stesso Stato a cui adesso si vorrebbero di nuovo affidare i nostri ponti.