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Alberto Genovese, la 18enne a pranzo con gli amici dell'imprenditore dopo la presunta violenza: terremoto legale

Gianluca Veneziani
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Il caso di cronaca del momento, la vicenda dello stupro da parte di Alberto Genovese, ieri si è arricchito di un nuovo colpo di scena. I due legali della ragazza vittima di violenza sessuale, Luca Procaccini e Saverio Macrì, hanno rinunciato al mandato di difendere la loro assistita, dopo alcune rivelazioni fatte due giorni fa dal programma di Rete 4 Quarto Grado. Stando a quanto ricostruito dalla trasmissione condotta da Gianluigi Nuzzi e Alessandra Viero, sabato 28 novembre la ragazza insieme a un suo amico si sarebbe incontrata in un ristorante di Milano con alcune persone dell'entourage di Genovese, tra cui l'amico più caro di un professionista da sempre in affari con l'imprenditore e un commercialista in una delle startup dell'uomo accusato di stupro. Dopo quel pranzo, peraltro vietato perché svoltosi in piena emergenza Covid, la ragazza si sarebbe trasferita nell'ufficio di Luigi Liguori, avvocato che da allora ha assunto la guida del pool che la difende. Quell'ufficio, curiosamente, è di proprietà di uno dei partecipanti al pranzo, ben conosciuto dall'amico della vittima. I due avvocati, che fino ad allora curavano la difesa dalla ragazza, all'inizio di questa settimana avevano accettato di diventare sostituti di Liguori. Tuttavia, dopo le rivelazioni del programma tv, hanno rinunciato all'incarico. E, con loro, hanno deciso di non seguire più il caso i medici facenti capo allo stesso pool difensivo, psichiatri e psicologi che avevano in cura la ragazza.
 

 

 

«Vedendo quanto è stato raccontato da Quarto Grado», dice a «Libero» Macrì, «ci siamo resi conto dell'esistenza attorno alla nostra assistita di una corte dei miracoli, avente su di lei un forte ascendente. Che siano vere o false le ricostruzioni di Quarto Grado, abbiamo preferito fare un passo indietro». Ad alimentare il tutto ci sono anche i sospetti su quale potrebbe essere stato il fine di quel pranzo. Nei giorni scorsi si era ventilata sui giornali l'ipotesi di un tentativo di accordo tra Genovese e la ragazza, che prevedrebbe un risarcimento di 5 milioni di euro alla vittima. Risarcimento che poi a processo porterebbe ad attenuanti e verosimilmente a una riduzione della pena per Genovese. Si tratta di una pratica assolutamente legale, ma che avrebbe dovuto essere discussa nelle sedi opportune, e quindi tra i rispettivi avvocati. «Finché noi abbiamo avuto il mandato», continua Macrì, «nessuno ci ha mai avanzato questa soluzione, che peraltro probabilmente avremmo rifiutato, preferendo arrivare a processo senza accordi preventivi. Ma se invece questa trattativa fosse stata portata avanti, a nostra insaputa, da mediatori vicini a Genovese e rivolta direttamente alla ragazza, si tratterebbe di un'azione illegale». Ma Macrì dice di più. Non solo teme che alla giovane possa essere stato proposto «un accordo tombale di riservatezza, tale da fare in modo che la vittima non si pronunci mai più sulla vicenda» (pure questa è una pratica legale, purché concordata tra avvocati). Ma, anche in merito alla possibilità di pressioni sulla vittima, l'avvocato ammette: «Se non avessi avuto questo timore, sarei ancora nel collegio difensivo». Quello che è certo è che, già nei giorni subito dopo lo stupro, Genovese ha incaricato un suo amico, tale Daniele Leali, di parlare con la vittima, per capire se si ricordasse di quanto avvenuto, e per invitarla a fare un viaggio a Londra con lo stesso imprenditore artefice dello stupro. Proposta rifiutata dalla giovane. In generale, gli ex avvocati della vittima si sono fatti da parte quando hanno percepito la possibilità di «un cambio nella strategia difensiva», come la definisce Macrì. «Non sapevamo neppure chi fosse Liguori che si è presentato come l'avvocato di famiglia della vittima». Quanto ai medici, continua Macrì, «la loro scelta è espressione di solidarietà col collegio difensivo». Naturalmente nessuno può sapere cosa sia stato detto in quel pranzo e a quale scopo sia stato organizzato. Ma vale la battuta che concede a «Libero» Gianluigi Nuzzi: «Di sicuro, se quelle persone si sono ritrovate in un ristorante nel bel mezzo di una pandemia, non è stato per parlare di araldica».

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