Alberto Genovese, Filippo Facci: "Uno stupro è uno stupro, ma chi va al mulino si infarina". Cosa non vi hanno raccontato sui party-horror
Alberto Genovese è un 43enne di origini napoletane che ha studiato alla Bocconi e poi è rimasto a Milano, dove ha fatto fortuna e si è trapiantato i capelli. A noi interessa che nella notte tra il 10 e l'11 ottobre ha violentato e seviziato una diciottenne, Michela, dopo averla drogata: questo durante una delle sue drogatissime feste sulla «terrazza sentimento» del suo attico con piscina in Piazza Maria Beltrade, sesto e settimo piano, con vista sul Duomo di Milano. A essere «socialmente pericolosa», per uno come Genovese e i suoi amici, in concreto era lei, la vittima e la sua normalità del bene: anche se non veniva dalla Luna e poteva sembrare un'aspirante modella alle prese con uno che aveva un'agenzia di modelle (hostess.it, dove lavorano 15 diciottenni) e che alle feste di Genovese detto Bebo - dove almeno tre generi di droga erano gratuiti ed esibiti sopra piatti neri - c'era già stata altre due volte, a giugno e a settembre, ma questo significa poco, molto poco.
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La magistratura non è tenuta a osservazioni sociologiche, deve solo incasellare i comportamenti e le consuetudini nella vincolante lettera della Legge, laddove uno stupro è uno stupro se la stuprata decide di denunciarlo (lo stupro è un fatto, ma può diventare un'opinione) diversamente magari da altre ragazze che non l'avrebbero denunciato - o meglio, l'hanno denunciato solo ora - perché a suo tempo l'avrebbero contestualizzato in un baccanale dionisiaco, dove loro non si sarebbero sentite delle stuprate, e lui, mai e poi mai, si sarebbe sentito uno stupratore.
L'INDAGINE E I CAPI DI ACCUSA
Secondo i magistrati Genovese era lucidissimo. Ed era lucidissimo, parentesi, anche Ciro Grillo (figlio di) rinviato a giudizio per stupro in Sardegna. Nel caso di Genovese, l'acme del dionisiaco - volgarmente parlando - si è tradotto in violenza sessuale, sequestro di persona, cessione di droga alias spaccio, lesioni gravi più un modesto disturbo della quiete pubblica. Ecco perché Genovese è in custodia cautelare e, davanti ai magistrati, piange, si dispera e spiega di essere dipendente dalla cocaina, e che «ogni volta ho allucinazioni e non ho più la percezione del limite tra legalità e illegalità, ho bisogno di essere curato, anche se mi sento una persona intimamente sana». Parentesi tecnica, non chiara nemmeno a tanti magistrati: la cocaina non dà dipendenza fisica, ma solo psichica; non esiste una cura intesa come «disintossicazione» da cocaina (tipo quella malamente descritta per Fabrizio Corona) e per smettere basta smettere, punto, anche se il cosiddetto «down» depressivo che ora perseguita Genovese - la crisi psicologica di astinenza - è terribile, e può durare giorni o mesi o anni.
Il cocainomane, prima, pensa che tutto ciò che gli succede sia legato al fatto che assume cocaina; il cocainomane, dopo, pensa che tutto ciò che gli succede sia legato al fatto che non la assume più. Smettere di essere socialmente pericoloso, per uno come Alberto Genovese, significa rinunciare a essere Alberto Genovese per com' era 24 ore su 24, sospeso - qui spiegare è complicato - tra stati di alterazione ma anche di lucidità assolute, anzi decisamente moltiplicate dalle droghe. Ma la magistratura non gestisce neppure un centro di recupero tossicologico: vaglia le prove. Cocaina e Ketamina. Ecstasy (mdma) e cosiddetta cocaina rosada. Per spiegarle servirebbe un trattato. La cocaina è un eccitante che rende megalomani e prepotentemente lucidi. La ketamina è un anestetico che favorisce allucinazioni e «stati di emersione» (enteogeni) ritenuti anche estatici e spirituali: le due droghe vanno a braccetto, e infatti a Genovese ne hanno trovate paccate in cassaforte, assieme ad ecstasy, a 40mila euro e alle manette usate nello stupro; sono le stesse droghe ripetutamente rifilate alla 18enne e, in teoria, a tutta la massa stordita presente alle feste.
COCKTAIL DI PERSONALITA'
L'Ecstasy aumenta la socialità, l'empatia e la voglia di sesso. La cocaina rosada (rosa) è sintetica e non c'entra niente con la cocaina, e, secondo le dosi, rende allucinati, fisicamente molto consapevoli e vogliosi d'allegria. Nell'insieme, si insegue un modello bifronte tra la spiritualità di Ghandi e il decisionismo di Hitler, entrambi ben disposti a togliersi le mutande. A dosi appropriate e collaudate si diventa Alberto Genovese, a dosi massicce e ininterrotte si diventa stuprabili. Infine: Genovese ha raccontato ai magistrati che assumeva 3 o 4 grammi di cocaina al giorno; è soggettivo, ma la maggior parte dei cocainomani che si fanno così tanto dopo un paio d'anni sono sdentati, hanno il naso schiacciato e un buco sul palato, e non potrebbero gestire cariche direttive in varie società. Diciamo che alle feste di Genovese si scopava parecchio, e tutto poteva ridursi a una gigantesca circonvenzione di incapaci oppure di capaci, secondo sfumature che la magistratura ritiene degne di nota. È vero che per partecipare alle sue feste c'erano delle autentiche liste d'attesa.
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È vero che uno stupro è uno stupro, ma è anche vero che chi va al mulino s' infarina. Lo status di stuprata e di puttanella possono anche convivere, e non ci riferiamo alla 18enne - anzi - ma ad altre decisamente sì. «Era noto che Genovese organizzasse feste dove veniva offerta droga agli invitati», ha detto una testimone, «e dove lui abusava sessualmente di ragazze». Era noto. A chi? Modelle, modelline, presunte influencer, prostitute al bisogno (diffusissime a Milano: basta una ricca mancia o un regalo, altrimenti fa niente, ma poi non le vedi più) e, ancora, altre sotto-categorie che faremmo fatica a declinare al maschile, perché è una società maschilista, ma neppure questo ora ci interessa: anche perché, in genere, a essere stuprate sono le donne. Non sono gli uomini a essere imbottiti anche forzatamente di droghe, legati ai polsi sul letto e alle caviglie con una cravatta stretta alla gola annodata alla spalliera, e un cuscino premuto sul viso per lunghissime manciate di secondi, sfiniti da una violenza sessuale anche dopo che il tuo corpo ha la rigidità e il calore di una salma, incosciente per 18 ore filate: è ciò che accadde alla ragazza, ora in cura da una psichiatra dopo che un medico della Clinica Mangiagalli - una donna - riscontrò che era stata imbottita di cocaina e ketamina, sì, e poi era stata violentata e seviziata in un modo che raramente a quel medico era capitato di vedere.
La sera del 10 ottobre la festa pompava di brutto: che poi le feste erano di vario tipo, c'erano quelle riservate a una trentina di persone oppure dei mezzi bordelli di gente. La ragazza, con un'amica, si presentò all'ingresso del palazzo verso le 20 e 30, dove un buttafuori sudamericano controllava gli invitati mentre la festa proseguiva già da ore: non è vero che ritiravano i cellulari, sarebbe stato ingestibile, s' invitava banalmente a non fotografare. Un'altra sua amica era alla festa da metà pomeriggio e l'aveva invitata il dj Daniele Leali detto Danny, poi additato come procuratore di ragazze e già socio di Genovese in qualche attività. La 18enne salì con l'ascensore, che richiedeva un codice, sino all'attico e superattico: questa volta era quasi una cosa riservata, venti persone o poco più, non c'era la musica a palla messa da dj ben pagati, il catering a cura di Carlo Cracco come in settembre, e neanche fiumi di champagne Perrier -Jouet (pessimo, vinoso, 35 euro) pieno di ketamina. C'era la solita scritta al neon rossa («Sentimento») che conduceva alla terrazza con piscina d'angolo, a sfioro.
GLI AMICI DEL "BOSS"
Chiaro che il boss non organizzava tutto da solo: c'era chi gli procurava la droga, chi invitava le ragazze anche fuori Milano, tipo a Ibiza nella «villa Lolita» sempre di Genovese (8 camere) o al club «Tipic» di Formentera dell'amico Danny, dove pure arrivavano un sacco di ragazze ed era tutto pagato. In quelle serate c'era sempre qualcuno che faceva da palo mentre Genovese o altri si chiudevano da qualche parte: una teste ha raccontato che a Formentera si ripeteva lo schema: «Mi invitarono a continuare a pippare nella stanza del capo da quando sono entrata in camera e ho tirato una striscia rosa non ricordo più nulla al risveglio il mio top era strappato e non avevo più reggiseno né scarpe, avevo le gambe piene di lividi e un gran male ai polsi». Ma quella, di serata, quella del 10 ottobre, non poggia solo su racconti o su perizie corporee: le telecamere interne hanno filmato tutto, quella e altre cinque feste. Il padrone di casa, ovviamente strafatto, appena vide Michela se ne invaghì subito, se ne disse innamorato, le propose un viaggio, non la mollò più, fece di tutto, le impose altra droga (piovve sul bagnato: lei ne aveva già presa) e morale: alle 22 e 30 i due erano già in camera, e c'era anche qualche spettatore. Erano in camera anche alle una e 40, ora in cui il casino della festa - 10 interventi in 5 anni - fece comparire all'ingresso dei poliziotti chiamati dal vicino di casa, il ballerino Roberto Bolle.
Il domestico e buttafuori sudamericano, Javier, disse loro che il signor Alberto non era in casa, che non era alla sua festa. Poco dopo, l'amica con cui era venuta cominciò a cercare Michela, ma la camera era off-limits da ore, e alle 2.00 l'amica se ne andò. Michela però era in camera, e ogni tanto cercava di messaggiare col telefono per chiedere aiuto. Genovese, secondo il racconto, la guardava piangere e urlare e poi si mise a fotografarla nuda e insanguinata, in posizioni oscene, prendendole dei soldi dalla borsetta ai quali diede fuoco davanti a lei, così, per mortificarla, prima di aprire una bottiglia di vino. La ragazza tornò cosciente solo verso le 22 dell'11 ottobre, quando fu cacciata fuori semi-svestita e con una scarpa sola. Una volante della Polizia la trovò così. «Nella mia percezione», ha detto Genovese in una dichiarazione spontanea, «io stavo trascorrendo una serata bellissima con la mia amata Voglio smettere di drogarmi e voglio farlo con dei professionisti la mia vita per l'ottanta per cento è sana, sono una persona a posto, che non farebbe mai del male. Voi avete scavato solo nella parte cattiva della mia vita, ma per il resto sono una brava persona». Ma non c'è nessun resto, da quanto inteso. Tra i legali di Genovese c'è Luigi Isolabella, già difensore dell'ex consigliere comunale Paolo Massari il quale, a margine di uno stupro giudicato tale, ha pure dichiarato di essere malato e che voleva essere curato: dopodiché, dopo un'udienza rigorosamente a porte chiuse, ha patteggiato. «Io non parlo con i giornalisti» ha detto l'avvocato Isolabella allo scrivente, che gli aveva fatto notare come una giustizia patteggiata e a porte chiuse (cioè sottratta al pubblico, nel senso che ancor oggi non è noto come siano andate le cose nel caso Massari) forse aveva contribuito a piallare lo status di un'avvocatura ormai piegata da pubblici ministeri dati in partenza per vincenti.
Ma nel caso di Genovese sembra veramente difficile che si possa mirare a un patteggiamento a porte chiuse. A metà ottobre la procura ha aperto ufficialmente un'indagine. Venivano ascoltati molti testimoni, varie ragazze sono accorse spontaneamente (topi che lasciano la festa che affonda) e la voce ha preso a circolare. Genovese ha detto alla madre che sarebbe partito per Amsterdam e poi per il Sudamerica col suo jet; il 6 novembre è andato all'ufficio passaporti per rinnovare il documento ed ecco concretizzato il pericolo di fuga: arrestato. Tutte le società in cui aveva delle cariche hanno preso le distanze formali e informali. Il dj Daniele Leali, definito braccio destro di Genovese e ritenuto suo procuratore di droghe, l'11 novembre è partito per Bali. Facile.