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Prato, cinesi immuni al coronavirus e viaggi a Pechino: le indiscrezioni sul "vaccino già testato"

Enrico Paoli
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 Dove tutto ha avuto inizio, in Cina, tutto potrebbe avere una fine. Mentre noi aspettiamo il farmaco della Pfizer, il colosso americano della farmaceutica, nel Paese della grande muraglia già sperimentano il «loro» vaccino. Prima su gruppi selezionati (militari, medici e infermieri), ora anche sulla popolazione civile, compresi i cinesi che vivono e lavorano in Italia, in particolare a Prato, una delle più grandi comunità del nostro Paese, disposti a testare l'efficacia del prodotto. «Di persone partite appositamente per farsi vaccinare non so, non tutti parlano e raccontano», spiega a Libero Marco Wong, consigliere comunale di maggioranza, eletto con la lista del sindaco di centrosinistra, Matteo Biffoni, «ma di imprenditori andati là per lavoro, o di persone tornate in Cina per ragioni familiari e sottoposte al protocollo vaccinale ce ne sono». Wong, presidente Onorario di "Associna, seconde generazioni cinesi", misura le parole (lo fa con noi, così come lo ha fatto a Mattino 5, qualche giorno fa) consapevole della delicatezza della questione. In Comune, a Prato, non sono da meno: «Non sappiamo nulla di questa storia del vaccino».

 

 

La corsa al farmaco e la rincorsa al primato per la registrazione, non sono temi di poco conto. «È chiaro che dietro a tutto ciò vi sia anche una questione politica, oltre che economica», sostiene Wong, «probabilmente ci sarà la tendenza a fidarsi di certi prodotti invece di altri». Tradotto: non tutti si potrebbero fidare del vaccino cinese, aspettando quello della Pfizer, o quello russo, denominato Sputnik V. Una volta era lo spazio il campo di battaglia fra le superpotenze. Oggi sono i laboratori di ricerca. E poi c'è l'aspetto commerciale. Il farmaco di Pechino, in fase avanzata di sperimentazione, richiede tempi molto lunghi. Il protocollo prevede tre richiami, a distanza di 28 giorni l'uno dall'altro, con relative quarantene. «Bisogna avere del tempo a disposizione», spiega a Mattino 5 un imprenditore cinese di Prato, Fabio il nome, «per fare questa terapia». E tre, quattro mesi, non tutti possono permetterselo. Però è oggettivo un fatto: tanto da Prato, quanto da Milano (anche se con numeri ridotti) c'è chi è tornato in Cina per sottoporsi al protocollo.

 

 

Chi può, lo fa. In pratica hanno scelto di fare da «cavie», volontariamente, par di capire. Se poi il vaccino arriverà anche nelle comunità di Prato e Milano è presto per dirlo. «Al momento sono in fase avanzata di studio 12 vaccini», spiega Fabrizio Pregliasco, virologo e membro del Cts, «e quello cinese potrebbe essere alla fase 3. I test sono fondamentali, soprattutto per capire i tempi di reazione e gli eventuali effetti collaterali». Dunque la teoria secondo la quale i cinesi residenti in Cina e quelli emigrati a Prato, a quali è stato inoculato il vaccino, siano delle «cavie» è più di una semplice teoria. Un dato, in particolare, inquadra bene il tema. Durante la prima ondata la comunità cinese di Prato, ufficialmente 24mila residenti, non ha avuto contagi. Da fine settembre sì. Il numero sarebbe sotto le cento unità, però sono iniziati i viaggi in Cina. Tutto casuale, forse. O forse no.

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