Fausto Carioti bocca il governo in economia: "Così pagano giovani e precari"
Il divieto di licenziare è l'ultima conferma della legge di Prezzolini, per la quale «in Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio». Introdotta col decreto Cura Italia, la proibizione era destinata a durare «per sessanta giorni», cioè sino al 17 maggio. Due mesi durante i quali il governo Conte stabiliva che il «datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo». Ovvero quello che, secondo la legge, è «determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali» del lavoratore oppure «da ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro». Prima che scadesse, il termine è stato prorogato di altri tre mesi, giungendo così al 17 agosto. Pure questa, però, è una data scritta sull'acqua. L'esecutivo, ha confermato ieri ai sindacati la grillina Nunzia Catalfo, ministro del Lavoro, è intenzionato infatti ad estendere la moratoria sino a fine anno, insieme ad una proroga della cassa integrazione e di altri ammortizzatori sociali, che sinora hanno lasciato ampie zone scoperte. Come denunciato l'altro giorno dagli artigiani di Treviso, «ci sono aziende che termineranno la cassa integrazione a luglio, mentre il divieto di licenziare attualmente dura fino al 17 agosto. Queste aziende, pur non avendo lavoro (gli ordini sono crollati del 30, e in alcuni casi del 50 per cento), dovrebbero continuare a farsi carico di costi insostenibili, rischiando la chiusura». L'Italia è l'unico Paese ad avere introdotto una norma del genere e il risultato è quello che dà il titolo allo studio pubblicato ieri dalla Fondazione dei consulenti del lavoro: «Il divieto di licenziamento per pandemia affossa l'economia». Con simili provvedimenti, vi si legge, il governo ha creato «una "bolla sospensiva" della potestà decisionale e organizzativa del datore di lavoro, fortemente limitativa della libertà d'impresa». «Oltre a comprimere in maniera irragionevole il diritto di iniziativa economica», prosegue il documento, il divieto di licenziamento «realizza un indebito trasferimento degli oneri di solidarietà sociale, che devono incombere sullo Stato, sui privati». Inoltre, «mina significativamente la stessa possibilità di sopravvivenza delle aziende, destinatarie di una disposizione così sclerotica».
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Proibendo i licenziamenti, insomma, il governo leva soldi alle imprese per evitare di fare ciò che dovrebbe fare lo Stato, ossia assistere i lavoratori licenziati con giusto criterio. Peggio che mettere la polvere sotto al tappeto, poiché in questo modo si aggravano i conti delle aziende gonfiando un bubbone destinato comunque a scoppiare, quando si tornerà al regime normale (dovrà accadere, un anno di questi) o prima, qualora il privato costretto a pagare gli stipendi finisca i soldi (ma in questo periodo, avvisano i consulenti del lavoro, persino in caso di cessazione o sospensione dell'attività, ogni licenziamento «presupporrebbe, necessariamente, l'avallo delle organizzazioni sindacali»). Forti, quindi, i «sospetti» di «incompatibilità» di queste misure con l'articolo 41 della Costituzione, secondo il quale «l'iniziativa economica privata è libera», e con l'articolo 38, per cui spetta a «organi ed istituti» dello Stato assicurare i mezzi ai lavoratori in situazione di «disoccupazione involontaria». Ma la Costituzione, come hanno mostrato i Dpcm di Conte, è stata la prima vittima del Covid. Le imprese reagiscono nell'unico modo possibile. Ieri l'Inps ha certificato il crollo delle nuove assunzioni durante il mese di aprile, in cui se ne sono registrate appena 116.417: l'83% in meno rispetto allo stesso mese del 2019. Non vengono rinnovati i contratti a tempo determinato, diminuiti di 499.000 nel giro di un anno, gli stagionali (-169.000), gli intermittenti (-91.000) e quelli di lavoro somministrato (-133.000). In un mondo rigido, fossilizzato dai divieti del governo, pagano per tutti i pochi flessibili: giovani e precari, tanto per cambiare.