Al primario scappa una frase antigay ed è subito sospeso
Per un'uscita orribile un bravo medico rischia la carriera
Ci mancavano solo il giuramento d’Ippocrate e la discriminazione di gender. Può la chirurgia d’urgenza -con tutto il suo coté pericolante di sale operatorie, di umanità in bilico, di saettare di bisturi, sangue e sudore- essere vittima del politicamente corretto? Può un’espressione infelice striata d’omofobia benché figlia della tensione nel salvataggio d’una vita umana, trasformarsi in un caso politico e sbriciolare la brillante carriera di un medico?
Sono domande che, in queste ore, scuotono la placida provincia di Varese. Laddove il primario di un’azienda sanitaria, la Sette Laghi a Cittiglio, nel pieno della pandemia mortale del Covid, lo scorso 25 marzo, si trovava ad operare, pare, di un tumore al retto un paziente. E, lasciandosi sfuggire una frase, diciamo, eufemisticamente ruvida (“Non è giusto che in questo periodo di emergenza debba perdere tempo per operare questi froci”) ha scatenato l’ira dello specializzando in anestesia presente. Il quale specializzando è insorto in difesa dei diritti degli omosessuali, accendendo una discussione che è finita col primario che lo cacciava dalla sala operatoria. Il tutto a paziente aperto. L’operazione si è conclusa bene. Mentre molto male è andata al chirurgo, denunciato e assoggettato subito a provvedimento disciplinare da parte dell’ospedale e dall’Ordine dei medici di Varese. E’ finita che il nosocomio ora ha perso almeno per i prossimi due mesi il suo punto di riferimento chirurgico; e che la sacralità della medicina ha perso una fetta di dignità. In America ci avrebbero fatto una puntata del Dottor House, il chirurgo urticante quanto miracoloso, attraversata da un potente interrogativo. E cioè: è meglio ignorare l’attacco isterico di un medico antigay mentre salva una vita probabilmente di uno stesso omosessuale o usare quel suo sfogo inopportuno per attizzare una battaglia ideologica da dare in pasto ai media (e infatti siamo qui a parlarne)? La verità è che un’orribile frase pronunciata da un ottimo medico -tra l’altro ciellino, con la tendenza a vivere nel sussurro della professione- può creare un pericoloso precedente.
Esiste, certo, un mondo di conquiste di diritti civili, di sacrosante battaglie contro le discriminazioni, di parità sessuale faticosamente conquistate. Ma esiste anche un altro mondo che è quello della trincea chirurgica scavata ogni giorno dal sacrificio, delle decisioni implacabili sul filo della nevrosi, dal clima di sofferenza o di morte incombente che si può tagliare col bisturi. La sala operatoria è, da sempre, un campo di battaglia shakespeariano, dove si sdrammatizza spesso con frasi da trivio in grado di fare arrossire le suore e far cadere i crocifissi. L’ambiente della sala operatoria è tutto tranne che anestetizzato, è come quello degli spogliatoi di calcio, delle redazioni dei giornali, dei gabinetti di guerra: un ricettacolo di carne e sangue dove in tempi ristretti si devono prendere decisioni ai limiti dello spasimo. Le sale operatorie sono, in pratica, dei non-luoghi dove le volgarità, il sarcasmo pesante e, talora, la tendenza a sacramentare fanno parte di consolidate liturgie. Se piazzassero dei microfoni nascosti durante le riunioni di redazioni mentre si discute delle solide promesse di Conte, be’, metà dei giornalisti italiani verrebbe processata per direttissima. Winston Churchill, nell’ora più buia, bestemmiava e fumava – e spegneva- i sigari in faccia agli attendenti, poi però l’Inghilterra la fece uscire dal guano anche se gl’inglesi, dopo, nel guano ci misero lui. Qui non è una questione di leggi violate, ma di buonsenso nel valutare il contesto; e di pietas umana contro la condanna di una comunità -quella omosessuale- che si sente giustamente indignata. Siamo convinti che il chirurgo, tornato a casa abbia realizzato di aver fatto una cazzata e, forse, se n’è perfino pentito. Basterebbero, per uscire dall’impasse, delle sentite scuse. Fatte e ricevute…