Coronavirus, bastano quaranta giorni per cadere in miseria
Mentre la politica e gli esperti si interrogano sulla Fase 2, su come far ripartire il Paese, il coronavirus continua ad inghiottire quel ceto considerato medio, che a fine mese non è mai riuscito a mettere nulla da parte, perché lo stipendio è sempre troppo basso pur rinunciando alle vacanze e a qualsiasi spesa che vada oltre il necessario, perché l' Italia inghiotte ogni possibilità di risparmio per via delle tasse che prosciugano le speranze di una vita migliore, perché perché, perché...
Ecco, oggi questa fetta consistente del paese fa i conti con la fame. Per avere il totale della disperazione sono bastati appena quaranta giorni, o poco più. In ogni caso, il tempo necessario per creare una nuova categoria di persone che, come li ha definiti il Corriere Veneto, si può definire come i "poveri del coronavirus". Dentro ci sono parrucchieri, ristoratori, estetiste, partite iva, professionisti ricchi agli occhi di molti ma con i soldi utili soltanto a pagare dipendenti e coprire le spese, ci sono le badanti e le baby sitter che hanno lavorato a nero e che ora si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Ci sono i lavoratori dello spettacolo senza cassa integrazione (di ieri l' appello di Ornella Vanoni per tutelarli: «Se noi non lavoriamo, loro non mangiano», ha scritto l' artista su Fb). Poveri un tempo considerati di "ceto medio" e che oggi vanno ad unirsi a quelli considerati "classici" poveri. Come loro, si ritrovano a non riuscire a portare a tavola il pranzo e la cena, a non poter soddisfare le richieste elementari che una vita decente richiede. I più se ne vergognano. Soltanto quando la fame si fa troppo avanti, si lascia cadere quel velo di angoscia e si trova il coraggio per chiedere aiuto.
Basta un dato per capire la portata del fenomeno. Nell' ultimo periodo «abbiamo calcolato un aumento del 20 per cento di richieste di aiuto con picchi in particolare dal Sud Italia, da regioni come Campania e Sicilia o da province come quella di Foggia», osserva Giovanni Bruno, presidente di Banco Alimentare. La Fondazione onlus che in Italia conta 21 sedi e che per la distribuzione di cibo si appoggia a qualcosa come 7.500 strutture caritative che, ricevuti i generi alimentari, "modellano" i pacchi a seconda dei destinatari. Un lavoro ora reso più articolato visto l' ampliarsi della platea di persone da soccorrere, che prima non facevano parte della mappatura di quelle considerate a "rischio". Un lavoro a cui in questa fase partecipa anche la Protezione civile insieme ai centri comunali preposti a questo tipo di iniziative. «Sono molteplici le richieste che ci arrivano via social e fa riflettere il fatto che se prima ci si rivolgeva a noi in un italiano stentato, ora ci troviamo di fronte a richieste di connazionali che ci raccontano le loro storie», aggiunge Bruno. Si tratta, come detto prima, di piccoli artigiani, partite iva, persone con famiglia e figli che non sanno quando potranno riprendere una vita normale fatta di uscite di soldi, ma di entrate che permettono di vivere decentemente. «Ci chiedono in che modo possono essere aiutate, con quali modalità», conclude il presidente del Banco Alimentare sollevato dal fatto che «in questo momento non soffriamo di carenza di alimenti grazie alla generosità delle aziende che hanno risposto ai nostri appelli e donato grandi quantità di cibo». La speranza è che «superata questa ondata emotiva di generosità», la voglia di aiutare chi è in qualche modo rimasto vittima economica del Covid-19 «non si esaurisca nei prossimi mesi». Una speranza condivisa da quanti si occupano da sempre dei più deboli e, da poco più di un mese, dei nuovi deboli.