Un poliziotto: "Le liti tra toghe ci danneggiano"

di Lucia Espositodomenica 18 maggio 2014
Un poliziotto: "Le liti tra toghe ci danneggiano"
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Alessandro Giuliano siede dietro la sua scrivania al primo piano della questura di Milano. Alle spalle ci sono tanti crest, gli emblemi in legno regalati da altri colleghi nel corso degli anni, una sorta di gagliardetti delle forze dell’ordine a volte donati in ricordo di un’operazione conclusa. Su un lato della stanza c’è il ritratto di suo padre Boris, capo della Mobile di Palermo ucciso nel 1979 da Leoluca Bagarella. Dall’altra, come se si guardassero, c’è una foto di Beppe Montana, commissario di quello stesso ufficio palermitano, ammazzato dalla mafia nel 1985. In mezzo c’è Giuliano, imperturbabile. Le parole del capo della Squadra mobile di Milano, lì dal 2009, sono misurate con cura, nulla sfugge per disattenzione. Se concede qualche spazio non è mai un caso. Resta calmo anche nel giorno in cui i giornali riportano la notizia di contrasti con il procuratore Alfredo Robledo, che secondo il capo della Procura milanese Edmondo Bruti Liberati, «è entrato più volte in contrasto con la Squadra mobile» da lui diretta. Tensione confermata da un “appunto” redatto da Giuliano in cui segnalava al procuratore Bruti una doppia assegnazione a polizia e carabinieri dello stesso pedinamento. «Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati svolta da personale della polizia giudiziaria – ha spiegato Bruti Liberati - ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Gdf». Sulla questione è scoppiato un caso che potrebbe essere risolto da un documento in possesso di Robledo. «Ma tanto lo sanno tutti che preferisce gli altri (i carabinieri, ndr) a noi della Mobile... non si fida», raccontano dagli uffici di via Fatebenefratelli. Anzi fuori, a debita distanza, «perché non sia mai mi vedono parlare con un giornalista...». Robledo non si fiderebbe perché «negli ultimi anni la Mobile è cambiata, si è indebolita. Ci sono troppe tensioni che rendono l’ambiente avvelenato e fanno scappare la gente». Cioè? «Una volta la Mobile era un posto ambito, a Milano dicono “figo”. Mentre prima c’era la frenesia per arrivare, ora c’è la stessa per chiedere il trasferimento. Questo è un lavoro complesso, bisogna essere uniti, non a caso si chiama squadra. Altrimenti sarebbe semplicemente ufficio». I motivi di questa situazione sono diversi, alcuni riassunti in un volantino che nel settembre 2012 apparve nei corridoi della questura solo per alcune ore, e che denunciava come «un glorioso ufficio» sarebbe stato trasformato «in un ritrovo di bambole». Colpa delle “barbie” e delle “barbie con i pantaloni”, dirigenti femmine e maschi che avrebbero distrutto la credibilità della Mobile a causa della loro incompetenza, presunzione, arroganza. «Quel volantino era un po’ troppo sessista, si faceva riferimento al fatto che ormai negli uffici per metà sono donne e molte sedute ai posti di comando (come le ultime due vice di Giuliano), ma nella descrizione di alcune di loro era condivisibile. Per di più non è cambiato molto». Di una dirigente si diceva che fosse «isterica, presuntuosa, arrogante, assolutamente incapace di fare questo mestiere, dannosa per il solo fatto di far parte della polizia. Ha denigrato validi investigatori che hanno sparato domande di trasferimento a raffica». E altri sono stati trasferito de imperio. «Secondo te, in un clima del genere come si può lavorare serenamente? Mica facciamo mozzarelle, noi arrestiamo la gente. Capisci perché Robledo, e non solo lui, preferisce assegnare i casi a “quegli altri”?». Quindi il motivo è solo professionale? «Beh, forse dipende anche dal fatto che il capo (Giuliano, ndr) è molto legato alla Boccassini e a Bruti». La parte “vincente” del tribunale. «Per certi versi sì. I magistrati sono persone, hanno simpatie come tutti, vale anche nel lavoro. Se Robledo non sopporta i colleghi che invece lavorano bene con la Mobile, probabilmente eviterà di coinvolgerci quando potrà, soprattutto se si tratta di grosse inchieste. In questo modo la nostra immagine viene svilita, perde di forza. In pratica restiamo schiacciati tra le due forze. E possiamo solo restare a guardare. Ma io non ti ho detto niente». Salvatore Garzillo