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Anche in Italia si urla "Allah Abkar"

di Lucia Esposito domenica 10 gennaio 2016

3' di lettura

Si sente ripetere che siamo in guerra. Ma contro chi, esattamente? Contro i terroristi, è la risposta immediata. Non sbagliata, ma insufficiente. Il terrorismo è uno strumento, una strategia, non un nemico. È uno dei tanti modi in cui si può condurre un attacco, il più violento e spettacolare. Eppure sentiamo parlare di un centinaio di donne aggredite, molestate e stuprate durante i festeggiamenti di Capodanno a Colonia. Di altre a Zurigo e a Helsinki. Non è forse violenza, questa, per di più organizzata? I terroristi sono pochi e fanno tanti danni. Ma questi altri violenti quanti sono? Dunque non c’è solo il terrorismo. L’assalto è più ampio, assume forme diverse. Però poggia su un sostrato comune. C’è un filo rosso che tiene insieme episodi diversi e apparentemente inconciliabili, ed è quel grido raggelante che risuona così spesso: «Allah Akbar». Risulta suggestivo - e inquietante - che a Desenzano del Garda una ventina di pakistani si sia lanciata contro la polizia scandendo proprio quell’urlo: «Allah è grande». Non erano terroristi, tutt’altro. Erano dipendenti di una cooperativa che lavora per la catena di supermercati Penny Market. Dopo quattro di giorni di sciopero - di cui non indago le ragioni - hanno organizzato un picchetto. E quando sono arrivati gli agenti, come di frequente accade ci sono stati momenti di tensione. Finché uno dei pakistani non ha deciso di scagliarsi contro i poliziotti lanciando il tristo grido. Gli altri l’hanno subito imitato. Bisogna chiedersi perché risuona quell’urlo. Il motivo è chiaro, per quanto sgradevole: in queste persone l’identità islamica è più forte di tutto. È un’identità che si trascina oltre i confini, che giunge qui attraverso l’immigrazione e che si esprime talvolta in modi violenti (l’oppressione delle donne ne è un esempio). È un’identità modellata sulla religione. Una fede, l’islam, che considera le donne inferiori. Talvolta le rispetta, certo. Ma in molti casi no, e le dimostrazioni sono numerose. Questa fede offre un duplice impulso: quello alla dominazione, perché la sua è una storia di dominazione e di imperialismo; ma anche quello al vittimismo. Perché da parecchio tempo - complice l’atteggiamento della sinistra, dei fan del multiculturalismo e dei sostenitori dell’islamofobia - la religione musulmana è presentata come «fede degli oppressi». Dei neri americani dei ghetti che si battono contro le angherie dei bianchi. Degli immigrati di seconda generazione delle periferie francesi che disconoscono la loro Patria. Seguendo entrambi questi impulsi, l’islam si presenta come un’alternativa forte, fortissima al modello occidentale. Offre un appiglio agli scontenti, incanala le frustrazioni, e in alcuni casi finisce a legittimare la violenza. Molestare una donna perché si è ubriachi è detestabile e schifoso, ma è diverso dal farlo perché si considera la donna un oggetto in quanto lo ha stabilito dio. Allo stesso modo, il grido «Allah Akbar» degli scioperanti pakistani marca una differenza. Trasforma il loro picchetto contro condizioni di lavoro (magari realmente sgradevoli) in una questione identitaria. Un conto è prendersela col datore di lavoro che ti spreme. Un altro è prendersela con i «crociati» che ti schiacciano in virtù del tuo credo. Purtroppo, l’islam favorisce questo salto di qualità. Sposta il bersaglio. Fornisce a un esaltato francese la scusa per sgozzare il suo datore di lavoro. Motiva una coppia che vive - apparentemente - tranquilla in un sobborgo americano a fare una strage. Invita a punire le fornicatrici occidentali del Nord Europa in una notte di festa. Nei casi più estremi, spinge a massacrare dei giovani che a un concerto rock o dei vignettisti blasfemi. Il pakistano che bercia «Allah Akbar» non si sente un lavoratore sfruttato. Si sente un musulmano sfruttato. Si percepisce come un estraneo rispetto alla nazione in cui vive, risponde a un’altra logica, ad altri valori. Così come i giovani immigrati di seconda generazione che, intervistati dalla Stampa, spiegavano: «Siamo italiani, ma la nostra identità è islamica». Ragazzi come questi sono sempre di più. Ieri Roberto Volpi spiegava sul Foglio che le i cittadini non comunitari divenuti italiani sono aumentati del 143% dal 2011 al 2014, e per lo più sono musulmani. Nello stesso periodo, i figli di stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana sono cresciuti del 500%. Sono i giovani intervistati dalla Stampa: prima islamici, poi italiani. Sono i pakistani di Desenzano: prima islamici poi lavoratori. E dire che noi, invece, siamo a malapena italiani. Francesco Borgonovo

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