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Emanuele Severino, il filosofo che uccise la morte

il filosofo a Tv 2000

Francesco Specchia
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Emanuele Severino l'abbiamo sempre immaginato come nella scena caliginosa del Settimo sigillo di Bergman, o in una tavola di Dylan Dog. Vestito come un cavaliere senza terra, gli occhiali spessi e l'espressione tagliente rubate ad Andrea Camilleri, ecco il filosofo che gioca a scacchi con la morte, quasi ignorandone l'esistenza; eccolo divincolarsi dall'imbarazzo con due frasi incrociate sull'abbaglio dell'aldilà; ed ecco che, con un arrocco di genio, ti porta il pedone in scacco matto.  Severino, “l'ultimo filosofo parmenideo”, e l'ultima fiaccola intellettuale del ‘900, se n'è andato a 91 anni. A dire il vero, s'è voluto beffare della sinistra mietitrice fino all'ultimo: era già morto il 17 gennaio, ma aveva dato disposizione preventiva di informare il mondo della propria dipartita solo a funerali già celebrati. Tanto la morte non esiste, ed è inevitabile prendere per i fondelli chi crede nel contrario, affermava. “Avvicinarsi alla morte è avvicinarsi alla gioia, ma alludo al superamento di ogni contraddizione che attraversa la nostra vita perché siamo costantemente nello squilibrio e nell'instabilità: non ci attende la reincarnazione o la resurrezione, ma qualcosa di infinitamente di più”. Così scriveva e ripeteva spesso, nelle sue lectio e nei suoi incontri, Severino, originario della sicula Mineo figlio naturale di un militare di carriera e figlio adottivo della Val Trompia, ossessionato dal quel pensiero unico e potente. La morte, in sé, è un riflesso di fata Morgana. E quei retropensieri sull'inconsistenza della base dei dogmi cristiani gli venivano naturali; ne ricordo, dopo anni di concitata riflessione, un suo accenno anche in una delle ultime interviste concessa alla nostra Claudia Gualdana. In quel caso -mi pare- Severino si esibiva su Martin Heidegger (del quale erano stati svelati I quaderni neri, scoop di Libero e della Gualdana stessa, appunto). Anzi, per essere precisi, Severino, allora, disvelava il rapporto di Heidegger con la metafisica, roba che era stato oggetto della sua tesi di laurea (molto) critica, esposta un secolo prima a Pavia. Anni dopo si scoprì che Heidegger, il quale considerava in genere i filosofi italiani una tacca sopra il livello delle zecche, aveva conservato gelosamente, tra i suoi appunti, proprio la tesi del 21enne bresciano/siciliano come una sorta di Diario di Anna Frank del nichilismo militante. Era uno dei pochi casi in cui Severino, uomo di un'umiltà oltre l'umano, amava mostrare un sentore di compiacimento. La morte, dicevo. Severino la considerava davvero il grande impostore. Partendo dal pensiero fluido dei suoi miti personali - Parmenide, Eraclito, Aristotele, Hegel, Nietzsche, Leopardi e Gentile- riteneva che il divenire non esistesse. Sosteneva che, citando i classici greci, “l'essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere. E dire che l'essere è non essere, o che l'ente è niente, ammettere il divenire insomma, è contraddittorio. L'unica conclusione coerente è, allora, che ogni ente — tutte le cose, ciascuno di noi — è in quanto è ente: e se è, è eterno, non viene all'essere (non nasce) e non finirà nel nulla (non muore)”. In soldoni, gli esseri umani consumano la vita nel timore della signora con la falce, ma in realtà la loro salvezza va di default, è cosa predefinita, “nella Gloria e nella Gioia”, come scrisse in un saggio Adelphi del 2000. Ammetto la mia ignoranza. E, prima di afferrare il suo pensiero, amici filosofi mi hanno immerso nel concetto -molto da liceo classico- del clinamen epicureo; spiegandomi che per Severino “tutto è eterno”, e che, di fatto, tutte quelle storie sull'al di là di cui sono piene le sacre scritture non son altro che fuffa. E la sua era un'intuizione, in effetti, illuminante e ansiolitica. Se non fosse che, quando la espresse, Severino era docente alla Cattolica di Milano. Così, tra il 1969 e il 70, quella stessa università lo radiò “con una procedura identica a quella di Galileo Galilei”, affermò lui con malcelata soddisfazione. C'è da dire, a posteriori, che uno dei suoi accaniti giudici, il professor Enrico Nicoletti, abbandonò l'abito talare dopo aver approfondito quelle idee inconciliabili con l'idea di Dio.  Divenne, in seguito, direttore degli Studi filosofici di Cà Foscari a Venezia, e fu la sua fortuna. Fu in quegli anni, infatti, che, sopendo la sua ossessione per la morte, Severino si dedicò anche ad altro. Agli articoli per il Corriere della sera, per esempio: il primo, del '75, era una Proposta per il Pci che correva “il rischio di diventare il più grande movimento socialdemocratico riformista del continente europeo” (e io mi sono sempre chiesto se Renzi col suo 41% alle Europee avesse mai letto Severino…); l'ultimo era una dottissima disquisizione su Alain Touraine. Meritano di esser citate, tra le sue opere, La struttura originaria (1957), Essenza del nichilismo (1972), Legge e caso (1979), Le radici della violenza (1979); Destino della necessità (1980). L'ultimo uscito è Testimoniando il destino (2019). E una bella rivalutazione di Giacomo Leopardi filosofo (In viaggio con Leopardi, 2015). E la traduzione dell'Oreseta di Eschilo, tanto per restare nei classici. La battuta più bella la fece a Bruno Giurato de Linkiesta il quale gli chiese: “Professore, se tutto è eterno, la cacca è eterna?”. Domandone non privo di sottotesto. Severino rispose: «Ma certo che la cacca è eterna, se non ci fossero le cose più umili non ci sarebbero quelle più alte», ricordando discussioni tra i teologi medievali su che fine avrebbero fatto, in Paradiso - quindi “nell'eterno- gli escrementi”. E lì capii che perfino lo scacco matto alla morte sarebbe passato in secondo piano…

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