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De' Manzoni: "Se la gente non si indigna è anche colpa nostra"

Alessandro Sallusti

Il sentimento prevalente è l'indifferenza. I giornali non sono più percepiti come una realtà da difendere. E qualche pretesto l'abbiamo dato

Andrea Tempestini
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di Massimo De' Manzoni   Sabato è accaduto qualcosa di inaudito in una democrazia occidentale: un giornalista, il direttore di un quotidiano, è stato arrestato in redazione. Era un assassino, un rapinatore, un ladro colto in flagrante? No, era, è, un professionista. Una persona che nel fare il suo mestiere ha forse sbagliato, ma senza dolo. Scrivo «forse» perché ci sarebbe parecchio da discutere nel merito: un commento non scritto da lui, un commento violento, senza dubbio, ma stilato sulla base di una notizia riportata da un altro quotidiano, che non è stato neppure denunciato, e nel quale il nome del diffamato (guarda caso un magistrato) non compariva. Ma ai lettori di Libero i fatti che hanno portato all'arresto di Alessandro Sallusti sono noti. Ciò di cui vorrei parlare oggi è di come (non) si sia reagito a questo provvedimento senza precedenti. Lasciamo perdere i nostri politici: pur comprendendo molte degne persone, formano una classe inetta che non solo non è stata capace in tanti anni di modificare una legge sulla diffamazione stupida e anacronistica, ma quando se ne è occupata, spinta dall'urgenza di un caso che minacciava di trascinarla nel ridicolo dell'esecrazione internazionale, ha dato il peggio di sé, animata da sete di vendetta verso una categoria la quale, seppure con estrema cautela, di tanto in tanto ha «osato» rivelarne gli altarini. Non vale neppure la pena di parlarne. Così come è fiato sprecato rammentare il corporativismo ottuso della magistratura, che quando nel procedimento è coinvolta una toga sentenzia alla velocità della luce e invariabilmente in una sola direzione. O l'insopportabile faccia di tolla della maggioranza dei nostri colleghi, impegnati in acrobatici distinguo che non sarebbero stati neppure concepiti se l'«infortunio» fosse occorso a un direttore politicamente ortodosso: ci sarebbero stati sciopero immediato, raccolta di firme, manifestazione di piazza, appelli alla mobilitazione della società civile. Ecco, il problema è proprio la mitica società civile. Un atto grave come quello dell'arresto di un direttore per un articolo, in condizioni normali avrebbe dovuto essere accolto da un'immediata e spontanea indignazione, da una levata di scudi di chi, insieme con la libertà di stampa, sente messo a repentaglio un proprio inalienabile diritto, una parte essenziale della stessa democrazia in cui ci muoviamo o ci illudiamo di muoverci. Invece, niente di tutto questo. Gelo totale. Anche a voler prescindere dal comunque non piccolo e non trascurabile fenomeno dei web odiatori, coloro che su internet e sui social network hanno dato fiato ai peggiori istinti nei confronti di Sallusti, la reazione degli italiani è stata sconfortante. Indifferenza, nel migliore dei casi. Altrimenti sarcasmo, aperta ostilità. Considerazioni del tipo: mamma mia che dramma, i problemi del Paese sono ben altri, non pretenderete mica di farci leggere di ‘sta storia sui vostri giornali, a noi di Sallusti non ce ne può fregare di meno, se ha sbagliato deve pagare. Fino al tremendo: ormai siete come i politici, siete fuori dalla realtà. Hanno torto? Sì perché non si rendono conto che in questa partita sono in gioco più i loro diritti che i nostri privilegi. Ma anche no: perché se il loro sentimento è questo una ragione c'è e la colpa è nostra. Solo nostra. Abbiamo qualche attenuante. Ma non un salvacondotto per un'assoluzione.  Abbiamo sbagliato. Quando nel ‘94 Berlusconi ha sfilato alla sinistra la vittoria che Occhetto e compagni sentivano già in tasca, il nostro mondo, già  bello strabico e malaticcio a causa della partigianeria «progressista» legittimata dalla tacita e miope spartizione Dc-Pci (a noi i ministeri di spesa e la sanità, a voi la scuola, la magistratura e i giornali) e della sudditanza al manipulitismo, è collassato. Il parvenu doveva essere abbattuto a tutti i costi. E ogni mezzo, in effetti, sui quotidiani fu impiegato. Pensiamo in particolare a Repubblica, dove fu costruita e messa a punto la prima, vera macchina del fango che la vulgata apocrifa attribuisce ingiustamente ad altri, semplici imitatori. Per reazione, i pochi giornali che non facevano parte del coro si attestarono su posizioni di analoga e opposta partigianeria e fu il disastro. Tutti insieme, abbiamo dato vita a una stagione in cui la stampa, anziché fungere da cane da guardia nei confronti del potere, è diventata cane da difesa dei vari poteri contrapposti, sbranandosi al suo interno e finendo per essere parte integrante di quel sistema sul quale avrebbe dovuto invece vigilare. Ripeto, abbiamo attenuanti. In special modo noi giornalisti non di sinistra e non pregiudizialmente antiberlusconiani, che ci siamo trovati in clamorosa minoranza a rispondere a un'offensiva che non avevamo scatenato. Ma il risultato finale è stato lo stesso: una stampa partigiana che si è via via confusa con i politici che si ergeva a difendere, fino a essere confusa con essi. E questo è il risultato. Se pochi si indignano per l'arresto di un giornalista, è perché il giornalismo è visto come un tutt'uno con la Casta. Non è più percepito come un mestiere che svolge una funzione sociale per il cittadino e quindi il cittadino non muove un muscolo per difendere quella che considera una sovrastruttura parassitaria della quale si può agevolmente fare a meno.  È chiaro che è un errore, che c'è pressappochismo ed esagerazione in questo sentire. Ed è lampante che costerà caro. I lettori, voltandoci le spalle come stanno facendo sul caso Sallusti, si stanno preparando un gramo futuro dominato da una gelida tecnocrazia che già incombe e dalla quale, senza l'ausilio del quarto potere, hanno pochi ripari. Ma vogliamo negare che questa situazione sia anche colpa nostra? Non è anche per questo che i giornali, tutti i giornali, vendono sempre meno? Forse è il caso che cominciamo a rifletterci, prima che sia troppo tardi.  

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