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Sallusti rischia il carcere: una vergogna italiana

Facci e Sallusti

L'ex direttore di Libero condannato a un anno e due mesi per diffamazione. E l'articolo nemmeno l'ha scritto lui

Andrea Tempestini
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di Filippo Facci Vediamo di aprirlo bene, il ventaglio delle responsabilità che potrebbero portare in galera Alessandro Sallusti, ex direttore di «Libero» e attuale direttore del «Giornale». Riassunto per i disinformati, cioè quasi tutti: nel febbraio 2007 su «Libero» uscirono un articolo e un commento in cui si parlava indirettamente - nel senso che non veniva neppure nominato - del giudice tutelare Giuseppe Cocilovo; la vicenda, rivelata da «La Stampa» e commentata il giorno dopo da molti giornali, riguardava una 13enne che il tribunale di Torino aveva autorizzato ad abortire ma che poi era finita in una clinica psichiatrica per le conseguenze della vicenda. L'articolo di «Libero» era firmato da Andrea Monticone mentre il commento era firmato dallo pseudonimo «Dreyfus», il quale concludeva scrivendo che «se ci fosse la pena di morte e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo, il giudice».  Un'esagerazione? Si può pensarlo. Il giudice tutelare - neppure nominato, come detto - sporse immediatamente querela: e siccome il commentatore non era riconoscibile, appunto, la responsabilità ricadde interamente sull'allora direttore Alessandro Sallusti. Domanda: vennero fatte indagini per risalire al vero autore del commento? No: nonostante l'autore, nell'ambiente giornalistico, lo presumessero tutti.  E veniamo al primo grado: l'avvocato di «Libero» era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4mila (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un'esagerazione? Si può pensarlo.  Tant'è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l'avvocato di «Libero» tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell'ottobre precedente come del resto la segretaria. Fatto sta che all'Appello dovette presenziare un legale d'ufficio - uno che passava di lì, letteralmente - sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall'accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l'omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d'Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.  Una lettura della sentenza peraltro permette di apprendere che la condizionale viene negata «ai sensi dell'articolo 133 del codice penale», e cioè - oltre che per gli altri procedimenti penali subìti da Sallusti come giornalista - a causa della sua «pericolosità» e dunque nel timore, se lasciato a piede libero, che possa commettere altri temibili reati. Da qui la condanna non sospesa, nonostante Sallusti non abbia cumuli di condanne con carcerazione e abbia solo delle condanne indultate o trasformate in pena pecuniaria, nessuna delle quali - attenzione - per articoli da lui scritti: sono tutte per cosiddetto «omesso controllo» e dunque per un reato colposo per definizione, ciò che vede molti suoi colleghi in condizioni ben peggiori delle sue.  Mercoledì prossimo c'è il giudizio della Cassazione che potrebbe trasformare in esecutiva la pena comminata a Sallusti. L'auspicio è un rinvio in corte d'Appello (un rifacimento del secondo grado, cioè) così da rimediare all'assurdità della pena detentiva. Sallusti, per un bel po', non andrebbe in galera in ogni caso: essendo la pena inferiore ai 3 anni e non essendo quindi immediatamente esecutiva, occorrerebbe attendere che la Cassazione notifichi la sua decisione alla Procura di MIlano (e già qui potrebbe persino trascorrere qualche mese) e poi che la Procura faccia eguale notifica ai legali di Sallusti, altro tempo che passa: dalla ricezione, gli avvocati avrebbero 30 giorni di tempo per proporre delle pene alternative come per esempio l'affidamento ai servizi sociali. La semi-libertà no, perché la pena supera i sei mesi.  Questa la storia, per sommi capi.  Resta il ventaglio delle responsabilità. Quelle dei giornalisti: una lobby così potente che in vent'anni non è riuscita a ottenere la depenalizzazione di un reato che solo in Italia prevede il carcere. La responsabilità degli avvocati: una lobby vera, quella sì, che da una vita straparla di depenalizzare la diffamazione e poi non ne fa mai niente: chissà perché. La responsabilità della classe politica - che in Parlamento ridonda giust'appunto di avvocati - che parimenti rassicura e tranquillizza la classe giornalistica salvo (non) fare assolutamente nulla quale sia stato il colore della compagine governativa: hanno fatto due intere commissioni per depenalizzare e sfrondare il Codice ma per la diffamazione è mancato il tempo, sapete. Le responsabilità dei magistrati, se non disturba: perché essere particolarmente suscettibili non è reato, e poi è vero, c'è pur sempre una legge che consente tutto questo: ma la applicano loro, ed essere giudicati e risarciti da propri simili consiglierebbe quantomeno una certa moderazione. Una condanna a una sanzione pecuniaria, in primo grado, forse poteva anche bastare: e invece no, a quanto pare c'era l'urgenza sociale di fare ricorso per pretendere la galera. C'era bisogno, soprattutto, di comminarla. Perché forse Alessandro Sallusti è davvero un pericolo per la società: si può pensarlo. Ma si può anche riderne.

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