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Sberleffo anti-crisi della Borromeo:"Tutti a fare un master all'estero"

Beatrice Borromeo

L'ex "Santorina" in un'intervista al settimanale "A": "Dobbiamo prendere dei rischi"

Matteo Legnani
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  Mendicante: «Signora, mangio una volta ogni due giorni». Damazza pingue e impellicciata: «Non me lo dica, ce l'avessi io una forza di volontà così». La protagonista della celebre barzelletta ha trovato una degna erede: Beatrice Borromeo Arese Taverna, di professione contessa. La quale, in un colpo solo, è riuscita a rendere allo stereotipo del nobile chiuso nella torre d'avorio con le fette di storione sugli occhi un servizio che nemmeno la ristampa dell'opera omnia di Robespierre.  «Per costruirci un futuro dobbiamo prenderci dei rischi. Il primo? Lasciare l'Italia». Si intitola così la cover story (perché chiamarla storia di copertina fa così provinciale) che la contessina ha scritto per l'ultimo numero del settimanale A. L'uso della prima persona plurale è, come spesso accade, un mero artificio letterario dietro cui si cela l'autrice medesima. La cui storia di emigrazione e coraggio è raccontata con scarno verismo in tre pagine all'interno. Perché la Borromeo il viaggio della speranza lo ha fatto davvero, sulle orme degli avi (magari non proprio degli avi suoi, ma non è il caso di stare a sottilizzare). Nel giugno 2011 la nobildonna è salpata dalla natia Italia alla volta dell'America, destinazione New York. Più precisamente, destinazione Columbia University, master di giornalismo. Eccolo qua, il rischio che si è presa la contessina: un ciclo di studi in una delle più prestigiose (e costose) università del pianeta. Come non consigliare ai connazionali stremati dalla crisi e dalla mancanza di prospettive di fare altrettanto? Certo, non è da tutti. Devi avere «la voglia di deragliare dalla strada che tutti davano per scontata, di fare qualcosa di più, di ottenere di più, di diventare i migliori, qualunque sia il proprio campo». Una volta che hai capito che tocca deragliare, però, sei a cavallo. Certo, mica puoi pretendere di avere visto arrivare il tornante della Storia prima di lei, che aveva già tutto chiaro «scoprendo nelle piazze la rabbia di milioni di ragazzi privati dei loro diritti più elementari» e aveva capito che i no-Gelmini e «le ramificazioni europee di Occupy Wall Street» avevano «scrollato di dosso un sentimento che fino a cinque o sei anni fa era predominante: l'apatia». Ora che la contessa Borromeo Arese Taverna ha aperto gli occhi agli italiani, però, le scuse per ritardare la partenza sono davvero finite. Tutti in America, dove ci si costruisce il futuro che è una bellezza e dove persino le raccomandazioni sono belle perché laggiù «quando segnali qualcuno ci metti la faccia» e se questo qualcuno poi risulta essere scarso «chi l'ha raccomandato perde credibilità». E soprattutto dove le opportunità ti braccano: «Un paio di settimane fa», racconta la rampolla, «la mia università ha organizzato incontri con le più grandi testate giornalistiche americane: in pochi sono usciti senza avere conquistato almeno un colloquio di lavoro». Mica come da noi, dove «occasioni come questa, o come i concorsi, hanno invece esiti scontati». Questo il quadro, lo sconcerto che assale la contessa al pensare che tanta gioventù italiana languisca in patria senza prendersi rischi e andarsi a costruire un futuro oltreoceano si fa comprensibile. Lei ha addirittura lasciato la comoda routine del posto fisso al Fatto, dove era stata assunta con contratto da praticante per indiscutibili meriti santoriani, onde andare a prendersi dei rischi e noialtri stiamo qui a buttare i nostri anni migliori rispondendo al telefono in qualche call center o consegnando pizze? La logica della Borromeo non fa una grinza. Non fosse per il dettaglio che, a lei così attenta ad analizzare le ragioni della «rabbia di milioni di ragazzi», inspiegabilmente sfugge: e cioè che il master all'estero è fuori della portata delle tasche della quasi totalità dei coetanei, i quali solitamente devono fare i salti mortali per riuscire a pagarsi una assai plebea università pubblica italiana. Lo strabismo sarà una caratteristica di famiglia: all'intervistatore che le chiedeva se avesse anche amici poveri, la sorellastra di Beatrice, Lavinia, rispose «dipende». «Parliamo di persone», aggiunse, «che devono lavorare per mantenersi?». di Marco Gorra  

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