Così l'Anpi si è fregata la Resistenza
Pansa: il 25 Aprile non può essere la festa di tutti perché a dominarla è un club politico al servizio dei comunisti
È importante celebrare il 25 Aprile come una festa che appartiene a tutti? Forse sì, anche se quella data evoca in tanti italiani ricordi luttuosi. Ammesso che sia importante, è giusto che il celebrante sia l'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani d'Italia? Forse no, perché una festa che dovrebbe essere di tutti non può avere come protagonista un club politico veterocomunista, travestito da sodalizio di reduci. Eppure, in occasione di quest'ultimo 25 aprile, molte tv e gran parte della stampa hanno continuato a rifilarci una sbronza di Anpi, Anpi, Anpi. Senza spiegarci di chi parlavano e dimenticando la sua storia. L'Anpi si costituì subito dopo la fine della guerra civile. Gli iscritti erano partigiani di ogni tendenza politica: comunisti prima di tutto, poi azionisti, cattolici, socialisti, liberali, repubblicani, militari. Ma l'unità non durò molto, per un motivo che risultò presto chiaro: l'Anpi «era egemonizzata dagli iscritti comunisti e dalla politica del Pci. E la sua linea era sostanzialmente filosovietica». La citazione è di Aldo Aniasi, per anni sindaco socialista di Milano, e la traggo da un suo libro su Ferruccio Parri, uno dei leader della Resistenza. I primi ad andarsene dall'Anpi furono i partigiani cattolici e delle formazioni autonome, i militari dell'esercito che all'8 settembre avevano rifiutato di sbandarsi. Fondarono una loro associazione: la Fivl, la Federazione italiana volontari della libertà. Guidata dal generale Raffaele Cadorna e da Enrico Mattei, il presidente dell'Eni. Un gruppo solo rosso guidato da Pesce - A staccarsi dall'Anpi furono poi i partigiani delle formazioni di Giustizia e libertà, le bande create dal Partito d'azione. Insieme se ne andarono resistenti di altre aree politiche non comuniste, a cominciare da quella laico-socialista. E la loro bandiera fu Parri. Nel primo dopoguerra, “Maurizio” aveva 55 anni ed era stato per qualche mese il presidente del Consiglio di un governo che avrebbe dovuto portare a Roma il vento del Nord. Da quel momento, l'Anpi diventò un club soltanto rosso. Uno dei tipi sinistri che lo guidavano era Giovanni Pesce. Oggi pochi si ricordano di lui, ma allora era una figura di primo piano della Resistenza. Dopo aver combattuto nella Guerra civile spagnola, era diventato un capo dei Gap, la struttura comunista creata per uccidere chi si era schierato con la Repubblica sociale. All'inizio del 1948, Pesce era il segretario provinciale dell'Anpi di Milano, un incarico politico di forte rilievo. Il 29 febbraio 1948, nella relazione al congresso che l'avrebbe rieletto, Pesce scaricò una valanga di accuse contro i partigiani cristiani usciti dall'Anpi. Rinfacciò loro di usare i finanziamenti della Confidustria per costituire squadre d'azione filo-fasciste. E dichiarò che nelle elezioni del 18 aprile l'Anpi avrebbe sostenuto il Fronte Popolare. Il motivo lo spiegò così: «Il Fronte è il naturale sbocco delle nostre attese democratiche». La sconfitta del Fronte, battuto dalla Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi, esasperò i partigiani comunisti. E sette giorni dopo il voto, il 25 aprile 1948, accadde l'impensabile. A Milano si stava celebrando il terzo anniversario della Liberazione. Tra gli oratori c'era Parri, accanto a Luigi Longo, il capo delle Brigate Garibaldi e in seguito successore di Togliatti come leader del Pci. Quando prese la parola Parri, i partigiani comunisti iniziarono a fischiarlo e a insultarlo. Gli gridavano di tacere e di non permettersi di ricordare la Resistenza. “Maurizio” si rese conto di non poter continuare a parlare. Interruppe il discorso e scese dal palco, tra gli applausi ironici dei militanti del Partitone rosso. Longo comprese che la contestazione avrebbe sollevato uno scandalo. Scese anche lui dal palco e convinse Parri a riprendere la parola. Quella fu la prima delle tante contestazioni che avremmo viste negli anni a venire, in molte turbolente celebrazioni del 25 aprile. Ed ebbe subito un seguito che nessuno prevedeva. Il 27 maggio 1948, sempre a Milano, in una riunione di partigiani non comunisti in piazza Belgioioso, Parri spiegò con chiarezza la propria posizione. Disse che si doveva essere indipendenti da qualunque partito e da qualsiasi interesse politico. Aggiunse: «Vogliamo riunire non la totalità dei partigiani, ma soltanto quelli legati dalla fede nella libertà e dalla volontà di difenderla». La pressione sovietica e l'egemonia del Pci - Poi non esitò ad affrontare la questione più delicata: «A chi ci rimprovera di rompere l'unità partigiana a profitto della reazione, rispondiamo che è la pretesa di monopolio del Pci che ha fatto il gioco delle forze reazionarie. A rompere l'unità della Resistenza, che l'Anpi pretende di rappresentare, è la pressione da carro armato della potenza sovietica sui Paesi dell'Est e sull'Europa al di là di essi, a Berlino, a Praga e a Belgrado». Il 9 gennaio 1949, Parri venne acclamato presidente della nuova Fiap, la Federazione italiana delle associazioni partigiane. Accanto a lui c'erano antifascisti indiscussi e indiscutibili. Come Leo Valiani, Piero Calamandrei, Giuliano Vassalli, Tristano Codignola, Francesco Berti Arnoaldi, Enzo Enquires Agnoletti, Bianca Ceva, Luciano Bolis. “Maurizio” precisò: «Il primo requisito dei nostri iscritti deve essere la moralità nella vita pubblica e privata. Noi abbiamo e dobbiamo avere sempre una sola legge: quella della verità e della giustizia». Da quel momento, l'Anpi divenne del tutto una struttura al servizio del Pci. Come l'Udi, l'Unione donne italiane, il Fronte della gioventù, i Partigiani della pace, i Pionieri. Con un'aggravante: più il Pci cambiava e sia pure con esasperante lentezza si apriva a posizioni riformiste, più l'Anpi si chiudeva. Sino a diventare quella che è oggi: una piccola parrocchia politica, una fazione senza autorità, sempre più settaria, ma coccolata dai retori della Resistenza. I compagnucci nevrotici che dicono sempre no a qualunque tentativo di rileggere la vicenda della guerra civile. In Italia, una parte dell'opinione pubblica dimentica in fretta. Ma non tutti hanno la memoria corta. E certe scelte dell'Anpi non sono state dimenticate. Qui ricorderò quella che riguarda uno dei delitti politici compiuti negli anni Settanta: l'assassinio del commissario Luigi Calabresi, per opera di un commando di Lotta continua. L'accoglienza festosa per il killer Bompressi - Quando uno del gruppo, Leonardo Marino, confessò, venne arrestato Ovidio Bompressi, ritenuto da diverse sentenze il killer che aveva sparato e ucciso Calabresi. Il compagno Bompressi fu condannato a ventidue anni di carcere. Ma non sopportava la prigione. Si ammalava e deperiva a vista d'occhio. Fu così che ottenne la detenzione domiciliare. Ritornò nella propria città, Massa, e venne accolto a braccia aperte dall'Anpi del posto. Gli ex partigiani lo iscrissero al sodalizio e gli fecero ottenere dai magistrati il permesso di lavorare ogni giorno alla sistemazione del loro archivio storico. Il 31 maggio 2006, Bompressi ricevette la grazia dal presidente della Repubblica appena eletto, Giorgio Napolitano. Sei giorni dopo, nella sede dell'Anpi massese, in piazza Mercurio, Bompressi venne festeggiato con calore entusiasta. Nel discorso di saluto, il presidente dell'Anpi definì l'assassino di Calabresi con parole sorprendenti: «Bompressi è un uomo che, per le sue qualità e per le sue attività di solidarietà sociale, deve essere considerato un patrimonio della nostra comunità». La festa si concluse con un abbraccio collettivo. Al canto di «Sventola la bandiera rossa». Questo non accadeva nel 1945, bensì appena sei anni fa. L'Italia di oggi è anche così. Perché stupirsi se il 25 Aprile non è la festa di tutti? di Giampaolo Pansa