Così i giudici piegano la sovranità popolare

Pubblichiamo stralci dell’intervento del sottosegretario Alfredo Mantovano all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Cassa Forense
di Alfredo Mantovanomartedì 8 aprile 2025
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Nonostante negli ordinamenti occidentali l’equilibrio fra i poteri sia delineato in modo chiaro dalle Costituzioni, esso appare sempre più precario. Sono tensioni che presentano caratteristiche diverse rispetto a quelle “classiche”. La diversità dipende anzitutto dal ruolo centrale assunto dal diritto sovranazionale e dal meccanismo con cui esso viene a operare negli ordinamenti statali. Quello che è in gioco è diventato proprio il modo di intendere la sovranità popolare. Sono 3 le tipologie di aggiramento della volontà popolare attraverso la strada giudiziaria: la creazione delle norme per via giurisprudenziale; la sostituzione delle scelte del giudice a quelle del governo; la selezione per sentenza di chi deve governare.

Il tema della giurisprudenza “creativa” non è nuovo. La novità oggi è il suo carattere diffuso fra tutte le giurisdizioni dando una lettura “estensiva” – per non dire arbitraria – delle norme costituzionali: il tutto per costruire discipline che il parlamento non ha approvato.

Il secondo ambito riguarda l’interdizione per via giudiziaria dell’azione di governo su materie politicamente sensibili, dall’immigrazione all’industria. Vorrei spendere qualche parola sulla tendenza delle corti a incidere sulla rappresentanza degli elettori. Il pensiero corre alla sentenza con cui alla leader francese Marine Le Pen è stata applicata la sanzione dell’ineleggibilità per 5 anni. Non entro nel merito, ma ciò non mi impedisce di riflettere sul criterio di proporzione. Il diritto di elettorato passivo attiene al cuore dell’espressione della sovranità popolare. Deve essere vincolato a parametri di onorabilità del candidato: ma perché a tali parametri non deve applicarsi la presunzione di non colpevolezza? Va scongiurato, in particolare, il sospetto che il perseguimento dell’incandidabilità del soggetto politico visto come ostile condizioni il merito della decisione giudiziaria.

Non aiuta che talune forze politiche, nonostante la lezione degli ultimi decenni, paiano ancora liete degli “azzoppamenti” giudiziari dell’avversario, pur di ottenere chance nella competizione elettorale. Trovo molto puntuale la fotografia dell’esistente scattata sul Corriere della sera (2 aprile) da uno dei più illustri editorialisti italiani, Aldo Cazzullo.

Il quale sulla vicenda Le Pen ha spiegato, come se fosse qualcosa di normale, che «era abbastanza ingenuo attendersi che l’establishment francese avrebbe consegnato il Paese (...) a Marine Le Pen. (...) Da italiani, cioè un popolo che disprezza lo Stato e la politica, fatichiamo a capire i Paesi dove un establishment esiste. Non a caso l’Italia è l’unico Stato dell’Europa occidentale dove i populisti hanno vinto le elezioni, sia nel 2018 sia nel 2022».

Non saprei descrivere meglio la considerazione che l’establishment ha della sovranità popolare. Secondo tale ottica, quest’argine andrebbe posto anche nei confronti dei ddl costituzionali. E non importa se la riforma osteggiata ha costituito parte del programma col quale la coalizione che sostiene l’esecutivo ha ottenuto il consenso degli elettori nel 2022. E, vi prego, non riduciamo lo scenario a un racconto di “toghe rosse” in azione, che oggi appare macchiettistico. È qualcosa di più grave. È un ormai cronico sviamento della funzione giudiziaria, perché quest’ultima deraglia dai propri confini e decide le politiche sui temi più sensibili. Ritrovare l’equilibrio è indispensabile. È un obiettivo rispetto al quale il ruolo dell’avvocatura è fondamentale. L’avvocato è figura centrale: è colui che richiama il magistrato all’esercizio equilibrato della funzione giurisdizionale. Proprio per questo nel quadro attuale l’avvocato diventa figura centrale anche per garantire, se pure indirettamente, l’equilibrio fra i poteri dello Stato.