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Se attaccano Delmastro per coprire i loro guai
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La modesta condanna in primo grado del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro con l’imputazione “coatta” di violazione del segreto d’ufficio, che la pubblica accusa peraltro non ha sostenuto neppure al processo, chiedendo inutilmente l’assoluzione, è un po’ come il dito che si preferisce vedere piuttosto che la luna da esso indicata. Un dito al quale le opposizioni si sono attaccate reclamando le dimissioni rifiutate invece dal sottosegretario, fiducioso nel famoso giudice che troverà prima o dopo a Berlino. Ma soprattutto sostenuto dalla premier Giorgia Meloni, con tanto di comunicato ufficiale, e dal guardasigilli Carlo Nordio, felice di continuare ad averlo “fra i collaboratori più cari e capaci”. Ma anche di Nordio, si sa, le opposizioni, con la sola eccezione di Calenda, hanno reclamato le dimissioni proponendo in Parlamento per altre vicende la cosiddetta “sfiducia individuale”, per quanto improbabile. Anzi, impossibile con i numeri di cui dispone la maggioranza, ai quali le opposizioni non sono abituate E ne soffrono sino all’ossessione. Più che perla condanna del sottosegretario Delmastro, il verdetto del tribunale di Roma è significativo per il no che hanno rimediato come parte civile i quattro parlamentari Pd che sono all’origine sostanziale del processo, per quanto l’esposto d’avvio delle indagini fosse stato presentato dal deputato della sinistra radicale Angelo Bonelli.
Il segreto d’ufficio contestato a Delmastro dal giudice- ripeto- e non dalla pubblica accusa non fu due anni fa, quando esplose il caso, solo o tanto quello dei colloqui dell’anarchico Alfredo Cospito con due detenuti per camorra e’ndrangheta, tutti in regime speciale in un carcere sardo. Colloqui nell’ora d’aria sentiti dalle guardie, riferiti in un rapporto al dipartimento penitenziario a conoscenza del sottosegretario Delmastro, da questo confidato all’amico e collega di partito e di Parlamento Giovanni Donzelli, indicativi di una lotta coordinata fra anarchici e criminalità organizzata contro il regime speciale di detenzione contestato da Cospito con lo sciopero della fame. Più rilevante del coordinamento tra anarchici e criminalità organizzata era la circostanza emersa da quel rapporto, di cui Donzelli si avvalse in un discorso nell’aula della Camera, di quattro parlamentari del Pd che, nell’esercizio legittimo, per carità, del loro diritto di visita nelle carceri, ebbero contatti con gli interlocutori di Cospito. Al cui digiuno di protesta contro il regime speciale disposto per la gravità dei reati commessi, e la pericolosità del detenuto, la sinistra non era rimasta insensibile, diciamo così.
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Ciò che scatenò la rabbia di Pd e affini fu insomma la rivelazione della visita della sua delegazione. Che francamente non si poteva considerare una notizia suscettibile di una riservatezza tale da incorrere in un reato parlandone, peraltro in un’aula parlamentare. Deputati e senatori, in base ad una parte dell’articolo 68 della Costituzione sopravvissuta alla riforma del 1993 restrittiva dell’immunità, «non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni». Alle opposizioni, nell’esercizio stavolta delle loro ossessioni, appare praticamente normale, cioè abituale, come ho sentito dire in un salotto televisivo, una condanna non chiesta dalla pubblica accusa, per cui il primo grado viene scambiato per il terzo, e definitivo. E si reclama la rimozione dell’imputato da una carica di governo legittimamente ricoperta. Ma alla gente comune, oltre che alla maggioranza parlamentare anch’essa legittima, non credo che possa apparire normale lo spettacolo di parlamentari in visita in un carcere per fare praticamente politica anche in quella sede e tessere, o comunque tenere, anche occasionalmente, rapporti informativi o d’altra natura con criminali interessati a campagne contro il regime speciale di detenzione.
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