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Meloni-Schlein, il patto per la Consulta: retroscena, la telefonata decisiva
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I giudici della Corte Costituzionale tornano liberi di prendere influenza e raffreddore. È un lusso che non si potevano permettere dallo scorso 21 dicembre, quando è terminato il mandato del presidente Augusto Barbera e dei suoi due vice, Franco Modugno e Giulio Prosperetti: con la loro uscita il collegio si era ridotto a undici membri, il numero minimo per deliberare. Nel novembre del 2023, infatti, si era concluso l’incarico di Silvana Sciarra, e anche lei non era stata rimpiazzata. Quattro giudici mancanti, tutti di nomina parlamentare, quattordici scrutini andati a vuoto: un «vulnus alla Costituzione», come lo aveva definito Sergio Mattarella, che ieri senatori e deputati hanno sanato. Serviva un accordo tra maggioranza e opposizioni, senza il quale sarebbe stato impossibile raggiungere il quorum dei tre quinti dei parlamentari, pari a 363 voti. L’intesa è stata raggiunta e ha tenuto: ogni gruppo ha votato i candidati propri e quelli altrui, anche perché chiamato a “firmare” la scheda scrivendo i nomi in un ordine stabilito e diverso da quello degli altri gruppi (la regola aurea è sempre quella di non fidarsi). Sono stati eletti così Francesco Saverio Marini (500 voti, indicato da Fdi), Massimo Luciani (505 voti, Pd), Roberto Cassinelli (503 voti, Forza Italia) e Maria Alessandra Sandulli (502 voti, figura “di garanzia” concordata da maggioranza e opposizioni).
Il patto che il Quirinale chiedeva da tempo è stato sigillato mercoledì sera da una telefonata tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein, tra le quali i contatti sono più frequenti di quanto si creda. A cose fatte, le due leader hanno salutato il successo dell’operazione con parole simili: «soddisfazione» della premier «per l’ampio accordo raggiunto tra le forze parlamentari», «molta soddisfazione» da parte della segretaria del Pd per «la grande compattezza sia delle opposizioni che della maggioranza». In un periodo nel quale la giustizia è il principale argomento di scontro, la riuscita di un’intesa del genere è un piccolo miracolo. Una parentesi, comunque: da oggi si ricomincia come prima. La presidente del Consiglio ha fatto da regista della maggioranza e ha fissato la regola per cui i partiti del centrodestra non avrebbero candidato parlamentari in carica. Lo ha fatto per evitare le dimissioni dal Senato del forzista Francesco Paolo Sisto. Nulla contro di lui (è anche viceministro della Giustizia), il problema è che è stato eletto in un collegio uninominale, quello di Puglia 2. Significa che, se avesse lasciato Palazzo Madama per traslocare alla Consulta, gli elettori di quella zona sarebbero stati richiamati alle urne, e nel centrodestra sanno che si sarebbe candidato il governatore Michele Emiliano, il cui mandato alla Regione scade a settembre. E siccome Emiliano i voti li ha, il risultato più probabile sarebbe stato un seggio in meno in Senato per la maggioranza e Forza Italia, e uno in più per il Pd. Meglio evitare, ha detto quindi la premier agli alleati.
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La regola del «non candidiamo parlamentari in carica» ha impedito a Forza Italia di proporre il nome di Piero Zanettin, eletto senatore in Veneto, anche se nel suo caso non si sarebbe dovuto tornare al voto, perché non è stato eletto in un collegio uninominale. Comunque ieri Zanettin ha ottenuto 5 voti, e Sisto ne ha avuti 4: segno che, tra gli azzurri, qualcuno non ha apprezzato quella regola.
Il partito di Antonio Tajani ha tenuto coperto il proprio candidato sino a ieri mattina: è stato in ballo a lungo il nome di Gennaro Terracciano, prorettore dell’università del Foro Italico, ma alla fine la scelta è caduta su Cassinelli, avvocato e parlamentare berlusconiano in tre legislature (ma non in questa). Quanto agli altri nuovi giudici, Marini (classe 1973) è il più giovane del quartetto. Di cultura cattolica, è figlio di Annibale, ex presidente della Consulta. Da due anni è consigliere giuridico della presidente del Consiglio, e a lui si deve il testo della riforma costituzionale per introdurre il premierato. Figlia d’arte pure la “bipartisan” Sandulli, che insegna Diritto Amministrativo a Roma Tre. Anche suo padre, Aldo, fu presidente della Corte, e lei nel 2005, assieme a molti altri giuristi, firmò l’appello «Salviamo la Costituzione» contro la riforma del governo Berlusconi, definita «pessima» in quel documento.
Quanto a Luciani, indicato dal Pd, è professore emerito di Diritto pubblico alla Sapienza. Ha scritto a lungo sull’Unità e preso posizione, con interviste a Stampa e Repubblica, contro le riforme dell’autonomia differenziata e del premierato. Di quest’ultima ha detto che «il topolino partorito è palesemente inadeguato»: nel palazzo della Consulta avrà nove anni di tempo per parlarne con il suo nuovo collega Marini, che di quel «topolino» è l’autore.
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