Anm, eletto Marco Patarnello: la toga della lettera contro Meloni
Vi ricordate il caso di Marco Patarnello esploso in ottobre per una sua mail nella posta elettronica dell’Associazione nazionale dei magistrati? Che riconosceva, segnalava e quant’altro ai suoi colleghi la «forza» e la «pericolosità» della premier Giorgia Meloni rispetto ai suoi predecessori perché inattaccabile sul piano personale, solida per la sue «visioni politiche», cioè per la sua leadership più consistente delle precedenti.
«Esponente di Magistratura Democratica», come sottolineò la premier in una immediata reazione polemica, quel magistrato è appena stato eletto dai colleghi nel nuovo comitato direttivo dell’associazione di categoria. Non col massimo dei voti - 688 come il collega Giuseppe Tango - né col minimo -74 voti di Natalia Ceccarelli - ma con 234, rimediando il 28esimo posto su 36. Sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Patarnello non gradì la reazione della premier, lamentando peraltro, come i colleghi intervenuti in sua difesa nella polemica, che le fosse sfuggito un altro passo della sua mail. Che era quello in cui egli aveva raccomandato ai colleghi di attrezzarsi bene nell’azione di contrasto che la premier si meritava. Bisognava evitare una “opposizione politica”.
Bastava e avanzava - si è visto nei fatti- un’azione di contrasto giudiziario, com’era quella concretizzatasi in ottobre, a mio avviso, con la bocciatura della prima operazione di collocamento temporaneo di immigrati clandestini, a noi destinati, nella struttura costruita appositamente in Albania.
A quella bocciatura ne sono seguite altre, l’ultima anche nelle competenze giudiziarie passate nel frattempo alla Corte d’Appello di Roma. Dove è stato sospeso il giudizio rinviando la controversia alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ma svuotando daccapo la struttura italiana in Albania. Che la Meloni rimane convinta di riuscire alla fine a fare funzionare, come promise chiudendo a dicembre la festa nazionale del suo partito al Circo Massimo.
Intanto è arrivata anche la ciliegiona sulla torta - per non parlare di altro forse più appropriato - col rapido trasferimento di un esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti al tribunale dei ministri da parte del capo della Procura di Roma per l’affare Almasri. Col solito contorno delle distinzioni leguleiche fra “l’avviso di garanzia” ricevuto, ostentato e proclamato al pubblico dalla premier Meloni, dopo averne riferito al presidente della Repubblica, e la “comunicazione giudiziaria” definita dall’associazione nazionale dei magistrati.
Il tutto di una opinabile obbligatorietà, almeno nei tempi rapidi in cui tutto si è svolto per mettere sotto indagine mezzo governo, essendo stati iscritti nel registro degli indagati, oltre alla presidente del Consiglio, i ministri dell’Interno Matteo Piantedosi, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario a Palazzo Chigi con la delega dei servizi segreti, Alfredo Mantovano. Tutti sospettati di favoreggiamento del generale libico, perseguito dalla Corte internazionale dell’Aia, e di peculato, avendolo riportato a Tripoli con un volo di Stato. La obbligatorietà opinabile potrebbe sembrare un ossimoro. E forse lo è. Ma di ossimori si è riempito il nostro sistema istituzionale a furia di gestirlo con forzature, che consentono a storici e giuristi di affiancare la Costituzione scritta a quella materiale, o viceversa.
Un ossimoro è anche quella che a me sembra un’opposizione giudiziaria, dovendo essere la giurisdizione neutra politicamente. Una opposizione è avvertita anche da chi nei sondaggi sta facendo salire il gradimento del governo e scendere quello della magistratura. Lo ricorda spesso il ministro della Giustizia Carlo Nordio, già magistrato per una vita, convinto anche per questo che supererà l’eventuale, anzi scontato referendum confermativo, la riforma a lui intestata, all’esame del Parlamento, perla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri e tutto il resto.