I magistrati non hanno più il consenso dei cittadini: il toga party ormai è finito
In poco più di ventiquattr’ore la magistratura associata, oltre a contestare metodo e contenuti della riforma della giustizia, oltre a fare piazzate e scenate sugli scaloni dei tribunali, oltre a minacciare scioperi di chiaro sapore politico, si è pure messa a sindacare l’azione del governo sul caso del generale libico Almasri. Una singolare e del tutto inammissibile riconduzione alle competenze dell’ordine giudiziario delle funzioni esclusive del potere legislativo da un lato e del potere esecutivo dall’altro.
Se fossimo in una nazione con maggior senso delle istituzioni e del diritto, sarebbe l’ora di ricordare ai magistrati il principio fondamentale della separazione dei poteri, che proprio loro – forse senza nemmeno rendersene più conto – stanno tentando di scardinare e travolgere. Non tocca alle toghe svolgere funzioni proprie del governo. E soprattutto non tocca a loro il compito né di scrivere né tanto meno di correggere le leggi: cosa che compete al Parlamento.
Se qualche magistrato desidera fare il legislatore, la strada maestra prevede: dimissioni dal suo attuale incarico, candidatura alle politiche, elezione, presentazione di proposte di legge alla Camera e al Senato. Senza scorciatoie.
È l’ora di archiviare questa anomalia italiana secondo cui, partendo dall’idea che il magistrato sia “in lotta”, possa permettersi una latitudine di intervento pressoché sconfinata, invadendo poteri e attribuzioni che non gli appartengono.
In questo senso, mentre da giorni si dibatte intorno alla contrarietà dell’Anm all’ipotesi di separazione delle carriere, chi scrive ritiene che non sia loro compito né dire sì né dire no. Molto semplicemente, non compete a loro scrivere le leggi. Possono avere opinioni? Certo, come ogni cittadino. Possono esprimerle? Sì, ma con la continenza e la misura richieste a chi indossa una toga.
Tanto per cominciare, i magistrati non dovrebbero ammonire – meno che mai preventivamente – chi li critica: stiamo parlando di funzionari dello stato che già dispongono dell’immenso potere di limitare la libertà altrui, e che a maggior ragione dovrebbero attenersi a una speciale continenza espressiva, stando rigorosamente fuori dalla polemica politica.
I magistrati, in secondo luogo, non dovrebbero appellarsi ai cittadini o rivendicare una sorta di rapporto diretto con il popolo, che tra l’altro – diversamente da quanto accade in altri ordinamenti – non li ha eletti.
I magistrati, in terzo luogo, non dovrebbero - attraverso un’associazione privata quale è l’Anm – continuare a ritenersi gestori e quasi “proprietari” di un organo costituzionale come il Csm. Da questo punto di vista, è perfino riduttivo – da parte garantista – criticare le correnti, le quali sarebbero molto meno efficaci nella loro discutibile azione se non disponessero di un alveo, anzi di un castello fortificato, di un loro “governo” come l’Anm.
Intendiamoci: nessuno nega ai magistrati il diritto ad avere un loro sindacato. Lo abbiano pure, sulla base dell’articolo 39 della Costituzione. Ma non si può consentire a un’associazione privata di egemonizzare un’istituzione come il Csm, e di farne un contropotere rispetto a Governo e Parlamento.
Inutile girarci intorno. Usciamo da un trentennio in cui la magistratura associata ha oggettivamente operato in modo tale da rovesciare governi, contrastare primi ministri, costituirsi in anomala e abusiva “terza Camera”, contendendo a esecutivo e legislativo il compito di legiferare e di determinare la politica della giustizia.
Sta qui l’anomalia. Sta qui la patologia dell’uso politico della giustizia. Sta qui la clamorosa e radicale frattura costituzionale per cui i magistrati, oltre a invadere il terreno che sarebbe esclusivo degli altri due poteri, hanno anche la forza e gli strumenti per tenerli in scacco, tra intercettazioni, uso e abuso della carcerazione preventiva, inchieste con sentenza “mediatica” anticipata e immediata. La debolezza e talora la viltà della politica ha fatto per anni il resto, consegnando a dei funzionari statali vincitori di un concorso le chiavi della nostra democrazia, senza alcun mandato popolare e in oggettivo snaturamento della fisiologia costituzionale.
Ma oggi – ecco il punto – c’è una clamorosa novità. Se per molti anni queste scorribande erano purtroppo caratterizzate da un certo grado (prima altissimo, poi semplicemente alto) di consenso popolare, adesso la situazione si è rovesciata. Un numero elevatissimo di cittadini ha perfettamente compreso l’anomalia legata alla politicità dell’azione e delle parole della magistratura associata. E quel consenso è svanito. Morale: resta lo sbrego istituzionale, ma non c’è più la “toppa” o la giustificazione rappresentata dal favore popolare. La notizia è che il partito dei magistrati è minoritario nel paese. Possono urlare e minacciare quanto vogliono: ma hanno torto in termini istituzionali, e devono anche misurarsi con il fatto che la maggioranza dei cittadini sta da un’altra parte. Dopo oltre trent’anni, il toga-party potrebbe davvero essere vicino alla fine.