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Sechi e Open Arms, un processo che non doveva neanche iniziare

Mario Sechi
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L’assoluzione di Matteo Salvini nel processo Open Arms non dimostra che la giustizia funziona - questo sarà il mantra dei Torquemada del Pd e del Movimento Cinque Stelle che hanno bisogno di un colpo di spugna sulla loro coscienza - al contrario, il verdetto è la prova della devianza di una parte della magistratura rispetto alla Costituzione.

L’abnorme caso che è stato costruito sull’operato di un ministro - che aveva il diritto-dovere di contrastare l’immigrazione illegale - è la prova dell’invasione di campo delle toghe nello spazio della politica, è il sigillo sul punto di non ritorno: quel processo non doveva neppure iniziare. L’esito finale apre un nuovo capitolo sul tema della giustizia giusta e della lotta ai trafficanti di esseri umani. Questa storia diventa inevitabilmente uno spartiacque, impone una riflessione sul ruolo della magistratura e la degenerazione della lotta politica, sollecita una risposta concreta del Parlamento e del governo sul piano delle riforme.

Salvini si è difeso nel processo e non dal processo, lo ha fatto con grande senso delle istituzioni e coraggio, ma tenere un leader politico e un uomo innocente appeso a un procedimento assurdo è un’operazione kafkiana che può accadere solo nei regimi dove non esiste la separazione dei poteri, non in una democrazia. La condanna di Salvini sarebbe stata un’enormità insostenibile per le istituzioni, la sua assoluzione è un verdetto di colpevolezza contro chi ha usato l’arma giudiziaria per abbattere l’avversario.

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