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Dossieraggio, il manager Fabio Arpe: "Io processato senza neppure l'avviso di garanzia"

Pietro Senaldi
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«Sono stato indagato, e archiviato, già sei volte nella mia vita. In ogni circostanza mi sono sempre dimesso dagli incarichi di amministratore delegato senza chiedere altro che la mia liquidazione. Questa volta però no, perché la società è mia; a 63 anni, potrei ritirarmi, ma ho la responsabilità di sessanta persone che lavorano con me».

Ma lei cosa ha fatto?
«Nulla. Se non fosse per i giornali, neppure saprei di essere indagato, perché non mi sono arrivate comunicazioni. Controllo la posta ogni giorno e ancora nulla. Mi sono trovato sbattuto in prima pagina senza che nessuno si preoccupasse di chiedere il mio parere. La mia società, la Arpe Group, vende reputazione. Facciamo affiancamento strategico. Sto subendo un danno enorme, devo giustificare ai clienti un’accusa che non mi è mai stata formulata e non ha nessun fondamento. Tutto ciò solo perché ho un cognome famoso».

Dall’altra parte del telefono c’è Fabio Arpe, fratello del fu enfant prodige di Banca di Roma. «Tutto è nato quando è morto mio padre, Gianfranco, e l’avvocato di Matteo mi propose di commissionare un’indagine a una società di investigazione, regolarmente registrata, sulle proprietà della seconda moglie del nostro genitore. Io ho acconsentito ma non ho firmato nulla, non ho dato mandati né pagato nessuno. Neppure sapevo chi fosse la Equalize di Enrico Pazzali». La solita questione ereditaria quindi, «ma si tratta di poche centinaia di migliaia di euro» precisa il manager, «e poi l’indagine non ha prodotto nulla, soltanto una specie di documento, poco più di un Cerved, che attesta cose che sapevamo già e mi è stato mandato da mio fratello in copia». Il punto però non è l’innocenza. Lei è indagato eppure rilascia interviste.

 

 

 

Scelta insolita; perché lo fa?
«Tutti mi sconsigliano di parlare e mi garantiscono che la vicenda si concluderà in un nulla di fatto, ma il danno resta, perché la notizia di essere indagato è già una condanna passata in giudicato. Quel che mi sta accadendo non è corretto, non è da Paese civile. Rilascio l’intervista per il mio senso etico. È arrivato il momento che qualcuno rompa il silenzio e si dissoci da una situazione che trasforma l’avviso di garanzia, che dovrebbe una tutela per gli indagati in una sentenza».

Questa intervista è una sorta di protesta pubblica?
«Senz’altro non lo è contro la magistratura, che rispetto profondamente e di cui mi fido, anche per i miei trascorsi. Faccio il tifo perché i magistrati mettano in galera i responsabili di reati. Io pago le tasse, pago il canone e poi vedo il telegiornale che apre su di me come se fossi Totò Riina...».

È il prezzo della fama...
«Non è giusto pagarlo. Potrei starmene zitto e anche chiudere l’azienda e andare in pensione. Ma voglio lasciare un mondo migliore ai miei figli e perciò dico che ciò che sta accadendo non va bene. E poi penso ai miei dipendenti. Siamo la 718esima azienda europea per crescita quest’anno, davanti alla Bmw. Devo poter difendere l’onorabilità della mia azienda, composta da persone oneste, serie e affidabili».

 

 

 

Non è il primo a finire nel tritacarne...
«Questo non significa che sia giusto. Faccio un appello al governo, che peraltro ho votato: non ci si può ritrovare processati pubblicamente senza diritto di replica e senza nemmeno poter vedere ciò che ti viene contestato».

Però voi avete commissionato l’indagine?
«Non direttamente io, che non avevo contatti e non conoscevo l’Agenzia. In ogni caso Equalize era legale e sul mercato, che colpa ne hanno i clienti, casomai si dimostrasse che agiva fuori dalle regole? Non mi risulta sia un reato dare un mandato a un’agenzia investigativa. Vorrei precisare che sono anche certo che mio fratello ha la grande qualità di essere una delle persone più oneste che conosco».

 

 

 

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