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Magistratura democratica: "Non applicate il decreto migranti". Siamo allo scontro finale

Fausto Carioti
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Il governo accetta la sfida e alza la posta. Nel decreto legge varato in risposta alle sentenze del tribunale di Roma non c’è solo un elenco di Paesi che il governo reputa «sicuri» per il rispetto dei diritti umani. Diciannove Stati (inclusi Tunisia, Egitto e Bangladesh, oggetto delle recenti controversie) nei quali gli immigrati illegali potranno essere rimpatriati e i cui cittadini potranno essere trattenuti in Albania, mentre le loro domande d’asilo sono esaminate con procedura accelerata.

Quel provvedimento stabilisce anche che «è ammesso reclamo alla Corte d’appello» contro le ordinanze del tribunale sul trattenimento dei migranti, che al momento possono essere impugnate solo in Cassazione. La differenza la fanno i tempi, che per il governo sono fondamentali. «La Corte d’appello», si legge nel decreto, «decide con decreto immediatamente esecutivo, entro dieci giorni dalla presentazione del reclamo». I ministri si preparano così alle battaglie che verranno.

Adesso si attende la firma di Sergio Mattarella. A sinistra, da giorni, c’è chi preme affinché non la metta, ma a palazzo Chigi sono ottimisti. L’interlocuzione tra l’ufficio legislativo della presidenza del consiglio e quello del Quirinale è stata positiva e si confida che il capo dello Stato possa emanare il decreto in tempi rapidi: ieri sera il testo era in fase di “bollinatura” e oggi dovrebbe essere trasmesso al Colle.

 

 

La Corte di Cassazione sarà comunque il luogo in cui si deciderà l’esito dello scontro istituzionale tra il governo e i magistrati che si sono rifiutati di convalidare i trattenimenti dei cinque egiziani e sette bengalesi portati in Albania. Il ministero dell’Interno ha infatti presentato ricorso contro quelle ordinanze.

In uno dei ricorsi (tutti uguali, peraltro) scritti dagli avvocati dello Stato per conto del Viminale, si legge che la decisione dei giudici romani «è errata e ingiusta» e «deve essere cassata non solo per essersi fondata su una ricostruzione normativa errata, ma anche per aver completamente omesso di indicare le ragioni in fatto che hanno condotto il tribunale ad affermare, sulla base di detta ricostruzione, che il Paese di origine» dell’immigrato «non fosse sicuro per quest’ultimo».

 

 

La scelta del governo di rispondere colpo su colpo ha alzato ulteriormente il livello dello scontro: le toghe non si aspettavano una simile reazione. Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica, lo dice senza giri di parole: «Questo decreto non fa che esasperare il conflitto e di questo noi siamo molto preoccupati». Lo stesso capo delle toghe rosse, in polemica con il ministro Carlo Nordio, avverte che «la norma europea è gerarchicamente superiore alla legge ordinaria, sicché questa può essere disapplicata se contrasta con la norma europea».

Al punto che «commette un illecito civile» il magistrato che non si comporta in questo modo. Tesi che pare confermata da un portavoce dell’organismo lussemburghese: «Le sentenze della Corte di giustizia Ue sono immediatamente vincolanti per gli Stati membri». Proprio da una sentenza di quei magistrati, che spiega agli Stati come devono essere applicate le direttive europee sui Paesi sicuri, è partito tutto.

 

 

 

In attesa di scoprire quale sarà la prima toga che si rifiuterà di applicare il decreto invocando la normativa Ue, nel conflitto sono entrati l’Anm e i membri del Csm. Il sindacato delle toghe accusa esponenti del governo e della maggioranza di pretendere dalla magistratura «decisioni ispirate dalla necessità di collaborazione con il governo di turno». E anche l’Anm mette in chiaro che la categoria «risponde soltanto alla legge e in alcune materie, come l’immigrazione, prioritariamente al diritto sovranazionale ed europeo».

Nel Consiglio superiore della magistratura, organismo dalle molte anime, i colpi sono volati invece da ogni parte. Tutti i componenti togati di Area e Magistratura democratica (le correnti di sinistra), i moderati di Unicost e gli indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda hanno chiesto l’apertura di una pratica a tutela dei magistrati che non hanno convalidato il trattenimento dei migranti portati in Albania. A firmarla sono in sedici, dunque la maggioranza dei trenta membri del Csm: tra loro, però, non ci sono i sette togati di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice.

Costoro, pur esprimendo «solidarietà ai colleghi del tribunale di Roma», avvertono che quella richiesta non può essere sottoscritta, perché «manca la necessaria presa d’atto della inopportunità delle dichiarazioni pubbliche in precedenza rilasciate da un componente della sezione immigrazione, firmatario dei provvedimenti». Il riferimento è a Silvia Albano, presidente di Md, la quale, dopo aver criticato il piano del governo per realizzare i centri in Albania, ha scritto le sentenze contro la convalida del trattenimento dei migranti in quei centri.

E sempre all’interno di un Csm tornato incandescente, i consiglieri laici in quota al centrodestra hanno chiesto al comitato di presidenza di aprire una pratica nei confronti di Marco Patarnello, il sostituto procuratore della Cassazione che in una mail ai colleghi ha definito Giorgia Meloni «molto più pericolosa» di Silvio Berlusconi. Parole che questi consiglieri del Csm denunciano come «gravissime e inopportune», e per le quali chiedono di attivare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato e la trasmissione della pratica alla prima commissione, responsabile delle incompatibilità, per valutare il trasferimento di ufficio.

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