Corte Costituzionale, se lo nomina la destra il giudice diventa fascista
La segretaria del Pd Elly Schlein è improvvisamente guarita dell’afonia, o quasi, procuratale da Giuseppe Conte annunciando di recente nei cinque minuti televisivi messigli a disposizione da Bruno Vespa la chiusura a Matteo Renzi del cosiddetto campo largo dell’alternativa a livello pure locale, e non solo nazionale. Anche a costo di fare svanire la vittoria che l’ex ministro piddino Andrea Orlando già pregustava nella corsa alla successione a Giovanni Toti alla presidenza della regione Liguria. Dove i renziani adesso potrebbero far vincere la partita al candidato del centrodestra Marco Bucci, da loro peraltro già apprezzato e sostenuto come sindaco di Genova. La voce alla Schlein è tornata per gridare a Giorgia Meloni di mettere giù le mani dalla Corte Costituzionale, essendosi la premier proposta di fare eleggere domani, martedì, dalle Camere in seduta congiunta un giudice di sua personale fiducia - hanno scritto su Repubblica - al posto di Silvana Sciarra, scaduta l’anno scorso e non sostituita in sette votazioni svoltesi a Montecitorio.
LA VOLTA BUONA?
Quella di domani, per la quale i parlamentari di centrodestra sono stati mobilitati telefonicamente su imput personale della premier con chat finite sui giornali, potrebbe essere la votazione buona per i margini che si sono ristretti fra centrodestra e opposizioni con approdi nella maggioranza di parlamentari provenienti dalle file soprattutto di Conte e di Carlo Calenda. I 363 voti necessari per l’elezione del giudice non sono mai stati così a portata di mano della maggioranza di governo. Mai come ora anche la Schlein è apparsa scesa da Marte intimando, appunto, alla premier di mettere giù le mani dalla Corte Costituzionale e di non considerarla di sua proprietà. Eppure noi vecchi cronisti parlamentari, vissuti sempre fra i corridoi della Camera e del Senato, siamo stati abituati sin dalla nascita della Corte Costituzionale, 68 anni fa, per quanto concepita dai costituenti più di otto anni prima, a percepirla e raccontarla come un patrimonio sostanzialmente della sinistra. Il combinato disposto, diciamo così, fra i cinque giudici costituzionali di nomina del presidente della Repubblica e i cinque di elezione parlamentare, a Camere congiunte, sui quindici che compongono la Corte Costituzionale, essendo gli altri cinque scelti dalle “supreme magistrature ordinaria ed amministrative”, come prescrive l’articolo 135 della Costituzione, ha praticamente tenuto sempre la destra fuori dai giochi. Ridotta a sola testimonianza.
Abbiamo visto arrivare alla Corte Costituzionale - sempre noi vecchi cronisti parlamentari - fior di politici provenienti direttamente dai vertici, o quasi, dei gruppi parlamentari della sinistra. Forse più di quanto non avesse potuto immaginare la buonanima di Palmiro Togliatti, contrario per il suo connaturato parlamentarismo alla Corte Costituzionale perché non concepiva ch’essa potesse bocciare una legge approvata dalle Camere. Alla Meloni si contesta, in particolare, di volere fare arrivare alla Corte uno dei due mostri, per come li rappresentano al Nazareno e dintorni, che sarebbero l’attuale segretario generale di Palazzo Chigi, Carlo Deodato ma soprattutto il suo consigliere giuridico Francesco Saverio Marini. Di cui non si sa bene se la colpa più grave, dopo quella di essere consigliere della premier, sia più la famiglia, essendo figlio di un giurista di destra cui toccò a suo tempo un turno di presidenza della Corte, Annibale, o la presunta paternità del disegno di legge sull’elezione diretta del presidente del Consiglio. Che da quando la sinistra ha deciso di non sostenere più, dopo averla condivisa per un po’ di tempo, è diventata la minaccia più grave mai caduta sulla testa della democrazia italiana.
PATERNITÀ E MATERNITÀ
Mi chiedo, sempre da vecchio cronista che non ha perso la voglia e la possibilità di seguire le cronache parlamentari e affini, se la paternità del disegno di legge sul premierato al primo dei due esami della Camera, dopo il primo superato al Senato, il 18 giugno scorso, non abbia anche o soprattutto una madre. Che è la ministra delle riforme, già presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, di Forza Italia. Perché declassarla - mi chiedo - a prestanome, o quasi, pur di rappresentare come una provocazione politica la candidatura a giudice della Corte Costituzionale del professore di istituzioni di diritto pubblico Francesco Saverio Marini? Che con le funzioni di consigliere giuridico della premier, come quelli che lo hanno preceduto con e in altri governi, non ha perso né i suoi diritti civili, né le sue competenze.