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Raffaele Della Valle: "Il Codice Rocco? Nessuno in cento anni ha fatto meglio"

Pietro Senaldi
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«Visti i tempi che corrono, mi faccia premettere che io sono un liberale da tutta la vita».

Avvocato, chi l’ha mai messo in dubbio?
«Oggigiorno è un attimo darti del fascista, basta fare un ragionamento non partigiano».

Oggigiorno sembra che il Codice Rocco sia un reato, anziché una norma che persegue i reati. L’opposizione, per criticare il nuovo decreto sicurezza afferma che è un ritorno al Codice Rocco...
«Vedo in giro tanti slogan, e ancora più ignoranza. Il Codice Rocco è in vigore da 94 anni, 19 ottobre 1930, ottanta dei quali successivi alla caduta del fascismo, e porta ancora adesso, oltre alla firma di Alfredo Rocco, il ministro della Giustizia che ne curò l’estensione, quelle di Benito Mussolini e di Vittorio Emanuele III. Basta aprirlo e leggere la prima pagina per verificarlo. Come mai in quasi un secolo nessuno ha tolto questa infamia?».

Me lo spieghi lei, avvocato...
«Per due ragioni. La prima è che quel codice è un capolavoro giuridico che nessuno in Italia è stato in grado di migliorare. Ci sono state cinque o sei commissioni nella storia della Repubblica che ci hanno provato; di una facevo parte anch’io, un gruppo di tecnici, non politicizzati, che hanno lavorato per sei anni, poi hanno gettato la spugna. La seconda è che il Codice Rocco non ha più nulla di fascista. Nel tempo è stato emendato, depurandolo dalle norme autoritarie contenute nella parte speciale, quella dei singoli reati. Un lavoro che ha fatto essenzialmente la Corte Costituzionale, perché la politica non è mai stata all’altezza».

A 85 anni Raffaele Della Valle, già consigliere comunale di Monza dal 1975 al 1983 e consigliere nazionale sempre per il Pli (Partito liberale italiano), è più attivo e pugnace che mai. Libero lo intercetta dopo un’udienza fiume nell’aula bunker del Palazzo di Giustizia di Milano. «Vengo da Cosenza e prima ancora da Udine» spiega, «sempre in giro per processi... Avessimo oggi menti giuridiche all’altezza di Rocco o di Vincenzo Manzini, che hanno cesellato un capolavoro tecnico». Per il grande penalista, la parte generale del codice mussoliniano «sfiora la perfezione tecnico -giuridica, ha dei congegni ineccepibili e anche a livello lessicale è quasi inarrivabile, non lo riconosce solo chi ha la mente obnubilata, ma in materia di giustizia serve frigido pacatoque animo». Il problema poi di introdurre un nuovo codice è che «inevitabilmente si tratterebbe anche di un’operazione politica, perché le leggi riflettono la visione della società di chi le fa, e non solo quella della giustizia». Di questi tempi, fortemente polemici e divisivi, mettere mano alla norma «sarebbe comunque una scommessa, se non un rischio», chiosa l’avvocato.

Ma cosa c’è di così perfetto nel codice Rocco?
«I principi del dolo, della colpevolezza, della preterintenzionalità, la definizione del nesso causale, che lega azione e conseguenze penali, il concetto di responsabilità. Le sanzioni, l’individuazione di alcuni reati del Codice Rocco rivela lo spirito autoritario del fascismo, ma su quegli aspetti la giurisprudenza molto, e meno il legislatore, sono intervenuti già.
Resta l’impianto, che ricorda il liberale Codice Zanardelli, solo con maggiore acume giuridico».

Avremmo bisogno oggi di un nuovo codice?
«Sì, ma non per ragioni politiche o per depurare il diritto penale da retaggi fascisti che non ci sono più. Il Codice Rocco nasce in una società prevalentemente agricola. Oggi ci sono internet, i social, l’intelligenza artificiale. Ci troviamo a fare processi con prove raccolte in Stati autoritari o comunque di cultura profondamente diversa e dove non esistono le garanzie dell’indagato che abbiamo noi. Così capita di decidere oggi un giudizio in Italia sulla base di elementi raccolti in Bolivia grazie alle leggi speciali anti-trafficanti. È una realtà complessa, che richiede nuove norme, ma non vedo intelligenze giuridiche in grado di poterla disciplinare. Chi oggi ha una visione così completa della nuova società e le capacità giuridiche per avventurarsi in qualcosa di simile, senza peraltro cadere nell’abisso di scelte ideologiche».

I nostri politici si appassionano di più al tema del decreto sicurezza, “peggio del Codice Rocco”, si dice appunto. È vero?
«Capisco le norme sul decreto sicurezza, rispondono a un’esigenza dei cittadini. Però a mio avviso la politica dovrebbe volare più alta. Il politico, come il giudice, dovrebbe lavorare sotto l’impero della ragione e non sotto l’impeto della passione. Anche qui però, mi faccia dire, basta con gli slogan, da entrambe le parti».

Cosa intende, avvocato?
«Io penso che possa essere utile punire chi fa un blocco stradale. Quando però la politica dice che è una norma autoritaria perché prevede sanzioni fino a otto anni di carcere, gioca con l’ambiguità. Convengo con l’opposizione che il carcere talvolta può essere controproducente. Ma bisogna anche dire che, se non è previsto un minimo di pena significa che per il reato possono essere dati anche quindici giorni di cella e che la valutazione spetta al giudice, come è giusto che sia: se vuoi una pena equa devi lasciare il magistrato libero di spaziare e calare la punizione nel singolo caso. Quanto alle pene previste poi, sono per lo più velleitarie. Le carceri traboccano e la giustizia ha tempi eterni: già è difficile mandare in prigione chi commette reati gravi, figurarsi quelli del decreto sicurezza...».

Avvocato, non posso non chiederle cosa ne pensa della requisitoria del pm che ha chiesto sei anni di carcere per il vicepremier leghista Matteo Salvini...
«Ma qui entriamo in un discorso politico, quindi preferirei astenermi».

Politico dice?
«All’università i miei maestri mi hanno insegnato che sequestrare qualcuno significa privarlo di libertà di movimento. Non ho studiato le carte del processo, ma a me sembra che la nave carica di immigrati potesse andare ovunque, nessuno l’ha trattenuta. Allo stato, processare Salvini è un po’ come processare per sequestro di persona qualcuno che non apre la porta a chi, non invitato, gli suona il campanello...».

Non è che la parte autoritaria del nostro diritto penale ormai sta più nel tomo di procedura e nella disciplina delle intercettazioni piuttosto che nel Codice Rocco?
«Le intercettazioni talvolta configurano una spaventosa violazione della privacy, specie quando vengono date in pasto all’opinione pubblica. Certo, capisco che il contrasto alla criminalità vada affrontato con tutti i mezzi tecnici possibili, però serve il rispetto dell’individuo».

E per quel che riguarda il codice di procedura penale?
«Penso che la riforma indispensabile sia la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistratura giudicante. Peraltro, se la Procura diventa parte processuale, il giudice acquisisce maggiore libertà di giudizio. Oggi ci sono uffici delle indagini preliminari dove il giudice non osa discostarsi dalle letture del fatto operate dal Procuratore, che spesso è una star, un uomo conosciuto e osannato, talvolta una sorta di leader populista. Per il gip contraddirlo sarebbe come per un peone del Parlamento sconfessare un suo ministro. Tanto è vero che troppo spesso occorre arrivare fino alla Corte di Cassazione per dirimere vicende che potrebbero essere risolte prima di iniziare il processo».

I pm non vogliono la separazione: questione di potere?
«Non lo so. Posso dire questo: oggi il procuratore ha sempre più i tratti di un combattente contro la malavita.
Mi sta bene, ma allora devi cambiare casacca perché dare scacco al crimine è il lavoro della polizia e non del pm, che dovrebbe solo raccogliere le prove a carico e a discolpa dell’indagato. E poi è possibile che magari pm e giudice si confrontino al mattino in tribunale e poi il pomeriggio il primo decida della carriera del secondo compilando relazioni sul suo lavoro?».

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