Luciano Lucchetti, una storia italiana: assediato dai pm, "assolto in 34 processi"
Dal punto di vista del Processo kafkiano – l’assurdo innervato nella burocrazia - in natura non esiste nulla di comparabile all’ingegner Luciano Lucchetti. Lucchetti, 73 anni in pensione da sette, ex dirigente capo del Comune di Ancona, è l’uomo che vive col poco invidiabile record di ben 34 assoluzioni in 34 processi tra tribunali e giudici di pace, in 34 anni di servizio. Sempre in agguato come un brigante di strada, una tignosa malagiustizia gli ha sempre impedito di vivere una vita giudiziariamente serena. L’ingegnere viene indagato, imputato, sistematicamente prosciolto, e immediatamente indagato qualche mese dopo. Oramai ha perso i conti delle accuse e come, appunto, il kafiano Josef K, egli stesso è diventato i processi che subisce.
L’ultimo processo, per esempio, è narrativamente straordinario. Si sviluppa a fine aprile, al Tribunale ordinario di Ancona, per aver autorizzato la ristrutturazione di panchine storiche in stile Liberty griffate dal bollettino bellico del generale Diaz in persona: testimonianze della la guerra mondiale, da sempre presenti nelle centrale piazza Cavour, «senza il permesso della Soprintendenza». Permesso che, in realtà, c’era. Tanto che puntualmente, da parte della giudice Tiziana Fancello era arrivata l’assoluzione. Assoluzione subito contesta dal procuratore Paolo Gubinelli: «Il giudice assolveva equivocando». Sicché sbuffando, gli occhi al cielo e biblica pazienza, Lucchetti è tornato nel tunnel.
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Ora, l’ingegnere è ben consapevole di galleggiare in un’eterna anomalia, fatta di norme oscure, giochi dell’oca legali e inferni di carte bollate. A Marina Verdenelli del Resto del Carlino che l’ha intervistato, l’uomo lascia trapelare una cauta disperazione: «C’è un accanimento e non me lo spiego. Infatti ho chiesto al mio avvocato Roberto Tiberi di farmi avere i verbali dell’ultima udienza perché ricordo che è stata la stessa Procura a chiedere l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In udienza però non c’era il pm titolare ma un sostituto. Voglio leggere i verbali».
Campa cavallo, anzi campa cavillo. L’ingegnere – diciamolo è incazzatissimo: «Vedo sempre più frequente uno strapotere. Io ho subito 34 processi, se avessero fatto meglio le indagini più della metà non arrivavano a giudizio. Uno di questi mi ha visto in causa perché un cittadino era caduto fuori casa, a Collemarino, nel 2014, per una buca. Era un’area condominiale non pubblica. Ho provato a dirlo subito al giudice di Pace ma non era il mio turno e ci sono volute sette udienze per assolvermi. Quando ho testimoniato si è reso conto e ha chiuso il processo». E Lucchetti ricorda che, a differenza della common law angloamericana dove in caso di assoluzione c’è possibilità di rivalsa, nel nostro Stato che «inizia ad esser una dittatura», se i magistrati sbagliano «finisce tutto in cavalleria».
L’ingegnere ha ragione da vendere. E, nell’evocare furiosamente gli articoli 593 e 570 del codice di procedura penale sulla sarabanda di appelli e impugnazioni della pubblica accusa, be’, il suo caso rende attualissima una riforma del nostro processo. Che, per l’appunto, è la riforma penale licenziata nel luglio scorso dal ministro delle Giustizia Carlo Nordio, nella specifica parte del ritorno alla vita del divieto per il pm di proporre appello contro le sentenze di assoluzione di primo grado. Il divieto però non riguarda i reati più gravi, nel tentativo di rendere compatibile la nuova versione con quanto venne precisato dalla Corte costituzionale che aveva bocciato la legge Pecorella, dal contenuto del tutto simile.
I reati ora non più appellabili sono quelli a citazione diretta davanti al giudice unico; tra questi, la rissa, le lesioni stradali gravi, il furto aggravato, la truffa. In conseguenza della riforma, chi verrà assolto in primo grado per reati meno gravi non dovrà più temere un appello e quindi un ulteriore grado di giudizio: per lui il processo terminerà definitivamente con la sentenza. Fine dell’incubo. L’esatto contrario del mondo onirico dell’ingegner Lucchetti. Bene. Ci si perdoni i tecnicismi. Ma la tendenziale “inappellabilità degli esiti liberatori” si basa su ragioni di buon senso interpretativo che dovrebbe essere il principio-base della giurisprudenza. La prima ragione è che il giudice pronuncia sentenza di condanna solo se l’imputato «risulta colpevole oltre ogni ragionevole dubbio» (vedi la presunzione d’innocenza in Costituzione).
Ma come può esserci certezza oltre-ogni-ragionevole-dubbio nella condanna di chi sia stato precedentemente assolto? Il penalsita Gian Domenico Caiazza afferma che «una sentenza assolutoria, ancorché riformata in appello, sarà sempre di per sé bastevole a legittimare un ragionevole dubbio sulla responsabilità penale dell’imputato». La seconda ragione è che il pm a cui si consente di impugnare la sentenza di assoluzione, ispirato, da un’eccessiva personalizzazione magari dovuta all’eco eco mediatica, possa- diciamo- sentirsi in dovere di rimanere ancorato al proprio impianto accusatorio, seppur sconfessato in primo grado.
E per il cittadino appena proclamato innocente quell’impugnazione sarà, di fatto, un “fine pena mai”; dato che quello stesso impianto accusatorio, già bocciato seppur rintuzzato, può farlo rimandare alla Corte d’appello e finanche in Cassazione se i sostituti procuratori hanno le conoscenze giuste, come scrive Alberto Cisterna del Dubbio (ma questo merita un pezzo a parte). L’unica certezza è che Lucchini, col senno di poi, afferma che in un’altra vita non farebbe né l’ingegnere né il magistrato, ma il medico. Salvare vite, invece di rovinarle...
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