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La riforma della giustizia di Nordio eviterà un nuovo caso Toti

Pietro Senaldi
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Una riforma non ideologica che, con intelligenza e competenza, interviene per recuperare qualche principio costituzionale che la giustizia nostrana si era persa per strada. Il rispetto per la presunzione d’innocenza, i diritti dell’indagato, il ritorno del pm al ruolo di elemento funzionale al meccanismo della giustizia e non a quello di battitore libero del diritto, per conto proprio o altrui: sono questi gli elementi cardine della riforma Nordio approvata ieri dalla Camera. Non sarà una rivoluzione copernicana, ma è un passo in avanti verso il ritorno a uno Stato di diritto e lo stop alle barbarie delle intercettazioni selvagge. Ma vediamo, in breve, perché ognuna delle norme approvate ieri è da accogliere con favore.

Abolizione del reato di abuso d’ufficio. Privo dei principi di tassatività e determinatezza previsti per individuare le condotte punibili e quindi in parziale contrasto perfino con l’articolo 25 della Costituzione, l’abuso d’ufficio è sempre stato un reato penalmente fallito. Sui circa 5mila procedimenti che si aprono ogni anno, il 90% viene archiviato prima di arrivare a giudizio e il restante 10% si conclude nel 94% dei casi con un’assoluzione. Considerando poi che in Italia ci sono ben 17 diversi tipi di corruzione puniti, l’abuso era un reato sussidiario, che interveniva quando non c’era corruzione e non si riusciva a provare. Gli effetti principali dell’abuso d’ufficio erano due. Il primo, perdita di tempo e denaro da parte dei tribunali.

Il secondo, la paralisi degli uffici pubblici, il cosiddetto terrore della firma, per il quale amministratori e funzionari, per non incappare nelle maglie di una giustizia resa più arbitraria dall’indeterminatezza del reato, tengono ferme nei cassetti le pratiche anziché autorizzarle. L’abuso d’ufficio era il tipico reato per cui un pm poteva inquisire chiunque sulla base di un sospetto o di un’antipatia. Era il grimaldello con cui le procure potevano mettere il piede nei contesti che più stavano loro a cuore.

Raccomandazione. La riforma distingue tra realtà e finzione: da ora è perseguibile solo chi ottiene denaro sfruttando illecitamente una relazione con un pubblico ufficiale reale ed esistente, non asserita come prima. Per aprire un processo serve l’arricchimento indebito laddove prima bastavano quattro chiacchiere, magari anche vantandosi di rapporti inesistenti.

Intercettazioni. La riforma non pone alcun limite alle indagini attraverso le intercettazioni. Mette tuttavia argine all’abuso mediatico di queste, spesso finalizzato a indebolire l’indagato o comunque screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica, di fatto condannandolo socialmente e moralmente prima dell’inizio del processo. D’ora in poi saranno pubblicabili solo le intercettazioni già utilizzate nel processo, quindi che servono a provare i reati contestati. Finisce così il far-west delle conversazioni private che non rientrano negli atti processuali ma che le procure passano alla stampa per sputtanare l’indagato informando il mondo delle sue abitudini, dei suoi pensieri, dei suoi giudizi su terzi, delle sue angosce, dei suoi gusti sessuali, di tutto ciò che non è reato ma fa titolo e ti può segnare per la vita. Si spezza quel circolo per cui un mezzo processuale legittimo e utile veniva utilizzato in modo illegittimo per demolire una persona. Finisce anche la tortura delle intercettazioni passate e pubblicate a strascico, ogni giorno una nuova, per massacrare l’indagato e tenere sudi lui l’attenzione dell’opinione pubblica.

Avviso di garanzia. L’informazione di garanzia torna strumento a tutela dell’indagato e non a suo danno, come oggi, dove di fatto si rivela una gogna pubblica. Innanzitutto è rafforzato l’obbligo di riservatezza e viene eliminata ogni occasione di spettacolarizzazione: l’avviso va recapitato per posta, senza la Guardia di Finanza che bussa sotto casa, magari con lo stuolo di giornalisti preavvisati al seguito. Inoltre esso deve contenere, sommariamente, le ragioni per le quali il pm è al lavoro, mentre fino a ieri il destinatario del provvedimento veniva informato solo del reato per il quale era indagato e la data dei fatti contestati. Si riequilibrano così i diritti dell’accusa con quelli della difesa, che almeno viene messa a conoscenza di ciò da cui si deve difendere.

Misure cautelari. La custodia cautelare, ossia l’arresto in attesa di giudizio, ma anche di rinvio a giudizio, non sarà più un affare privato tra pm e giudice per le indagini preliminari, come è oggi, con le Procure che studiano i calendari delle presenze dei gip per decidere quando passare all’azione, aspettando che di turno ci sia una toga manettara o compiacente. Fino a ieri la privazione della libertà prima della condanna, che dovrebbe essere un’eccezione estrema, era desacralizzata. Fra due anni, quando questa parte della riforma entrerà in vigore, per l’arresto sarà necessaria una decisione collegiale: tre magistrati che decidono, a garanzia di indipendenza dell’ufficio dalla Procura. Prima dell’arresto, salvo il caso di pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, è necessario inoltre interrogare l’indagato, così che possa discolparsi ed evitare il carcere. Un passo per mettere pm e imputato, accusa e difesa, sullo stesso piano.

Inappellabilità. Una norma che punta ad alleggerire i carichi della giustizia ed è conforme al precetto in base al quale la condanna dev’esser al di là di ogni ragionevole dubbio: per i reati di impatto sociale non primario, il pm non potrà più ricorrere in appello. La ragione è semplice: il primo grado è un giudizio nel quale il magistrato opera sul campo, raccoglie prove, ascolta testimoni, l’appello invece è un procedimento cartolare, nel quale il giudice non fa attività istruttoria ma analizza i documenti raccolti nella fase precedente. Arduo immaginare che, sulla base delle sole carte, un giudice in appello possa considerare al di là di ogni ragionevole dubbio un reato quello che secondo il suo collega che ha raccolto il materiale in primo grado non lo è.

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