Andrea Conticini: "Assolto dopo 8 anni. Perseguitato perché sono il cognato di Renzi"
«Io credo, anzi sono sicuro, che se mia moglie avesse avuto un altro cognome questa vicenda si sarebbe risolta subito. Invece ci sono voluti ben 8 anni», afferma Andrea Conticini, imprenditore e marito di Matilde, sorella dell'ex premier e leader di Italia viva Matteo Renzi. Insieme ai fratelli Alessandro e Luca fu accusato di aver sottratto circa 7 milioni di dollari destinati all’assistenza all’infanzia in Africa. Nel mirino degli inquirenti le donazioni provenienti da Fondazione Pulitzer tramite Operation Usa, Unicef e altri enti umanitari internazionali. Questa settimana il Tribunale di Firenze ha assolto i fratelli Conticini perché il fatto non sussiste.
Assoluzione che era stata richiesta anche dalla Procura.L'indagine fu accompagnata da violentissimi attacchi mediatici, ben riassunti nello slogan: «La famiglia Renzi ruba i soldi destinati ai bambini africani».
Andrea Conticini, si ricorda quando tutto ebbe inizio?
«E chi può dimenticarselo? Era il 13 luglio del 2016. La mattina, molto presto, ricevetti una telefonata dalla Guardia di Finanza. Mi trovavo a Viareggio con la mia famiglia in vacanza. Scopro che mi stanno cercando e che devo tornare subito a casa, a Rignano sull’Arno. Io senza domandare altro mi avvio. Pensavo fosse un controllo di natura fiscale. Solo quando arrivai a casa capii che mi dovevano notificare un avviso di garanzia ed effettuare una perquisizione nella mia abitazione e nel mio ufficio».
Qual era la contestazione?
«Riciclaggio di 10 milioni di euro. Il provvedimento era firmato dai pm Giuseppina Mione e Luca Turco (quest’ultimo titolare del fascicolo sulla Fondazione Open e colui che arrestò i genitori di Renzi, ndr)».
I fatti a quando risalivano?
«Al 2011».
E gli notificarono l’avviso di garanzia a luglio del 2016? Dopo 5 anni?
«Questa è la prima anomalia del procedimento. L’altra è la competenza territoriale. L’indagine non doveva andare a Firenze».
Su quali elementi l’accusarono di riciclaggio?
«Avevo firmato una procura per mio fratello Alessandro, cittadino iscritto all’Aire, che collaborava con le Nazioni Unite per progetti con Paesi africani. Alessandro era dirigente di Play Therapy Africa, società che riceva erogazioni da Unicef. A differenza di chiunque altro nella sua posizione, non aveva un conto all’estero ma presso una banca in Italia su cui transitavano questi fondi poi destinati al pagamento del personale impegnato nelle varie attività in Africa. Tutte le somme erano tracciate e rendicontate. La banca, però, inviò nel 2011 una Sos (segnalazione di operazione sospetta) alla Banca d’Italia proprio riguardo questi movimenti».
Cosa fece?
«Insieme ai miei legali, gli avvocati Lorenzo Pellegrini, Filippo Bellagamba e Luca Bisori, che non smetterò di ringraziare, chiesi di essere interrogato. Ma il pm fu di diverso avviso».
Poi?
«Portai le prove “in positivo” della provenienza delle somme che mi contestavano, dimostrando che non c'era stato alcun riciclaggio ma che si era trattato del corrispettivo di prestazioni nell'ambito di regolari contratti, nel periodo 2008-2013, in diversi Paesi».
La Procura di Firenze decise di chiedere comunque il rinvio a giudizio.
«Sì. E il gip Piergiorgio Ponticelli, in quel periodo appena arrivato a Firenze, nel 2018 mi mandò a dibattimento».
Ed iniziò il processo.
«È stato un calvario, una udienza al mese, dove ho visto la sperequazione che esiste fra difesa e accusa. I pm hanno chiamato decine di testimoni che stavano dall’altra parte del Mondo, anche dirigenti Onu».
E lei?
«Anche io ho chiamato dei testimoni, con una differenza: la Procura può chiamare chi vuole, tanto le spese di viaggio e di soggiorno sono a carico del contribuente, la difesa se vuole un testimone al processo gli deve pagare tutto. Si tratta di soldi che, anche se si viene assolti come nel mio caso, nessuno ridarà mai».
Oltre ai testimoni aveva depositato altre prove?
«No. Gli stessi documenti prodotti durante le indagini e che si erano letti sia il pm che il gip. Nulla di nuovo».
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Che idea ha di quanto accaduto?
«Dico soltanto che a luglio 2016 eravamo alla vigilia del referendum costituzionale voluto da mio cognato e che molti lavoravano per farlo fallire».
La sua assoluzione è stata riportata da pochi giornali.
«Quando sono arrivato a 1500 articoli che parlavano di questa indagine ho smesso di raccoglierli. Della mia assoluzione ne ho contati nemmeno una decina. Le pare giusto? I giornali hanno una colpa grandissima. Ci sono soggetti, come i pm, che vivono della visibilità che gli danno i media».
Il suo stato d’animo?
«Come vuole che sia? Io la pena l’ho scontata. Senza considerare i problemi che mi ha determinato questa indagine».
Ad esempio?
«Appena venni rinviato a giudizio, la banca la mattina stessa mi comunicò di avermi chiuso il conto. Sa cosa significa per uno che ha un’impresa?».
Immagino.
«Mi sono trovato improvvisamente nell’impossibilità di fare qualsiasi cosa, tipo versare gli stipendi o ricevere i pagamenti dai clienti. Ho provato ad aprire un conto in altri Paesi europei ma le norme lo impediscono a chi ha queste contestazioni penali. Sono norme che non tutelano il cittadino».
Insomma, non ha dubbi che se sua moglie non fosse stata la sorella di Renzi si sarebbe risolto tutto subito?
«Ma certo. La banca avrebbe fatto la Sos ma io gli avrei portato la documentazione del caso e avremmo chiarito ogni cosa.
Senza un processo di 8 anni».
Cosa si sente di dire alle sue figlie?
«Che alla giustizia bisogna crederci ma non basta fare le cose bene. Il male può sempre arrivare. E che bisogna affrontare queste vicende con serenità e distacco».