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Generale Mori indagato a 85 anni per le stragi del '93? Puro accanimento giudiziario

Il generale Mori

Francesco Specchia
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Il generale Mario Mori indagato (ancora!) per le stragi mafiose di Firenze, Milano e Roma del 1993 rappresenta un unicum. È un pezzo di teatro alla Ionesco e, al contempo, una lite temeraria al contrario: in piena surrealtà del diritto, si potrebbe evocare l’art. 96 cpc – sulla “malafede e la consapevolezza dell’infondatezza della domanda”- e applicarlo alla Procura della Repubblica di Firenze. Ecco. Dovrebbe esserci un reato per la persecuzione dei galantuomini.

Nel giorno del suo 85° compleanno, mentre girava con successo l’Italia a presentare il suo libro contro il sistema (La verità sul dossier mafia-appalti scritto con Giuseppe De Donno) il generale riceveva un avviso di garanzia con invito a comparire per essere interrogato in qualità di indagato per i reati «di strage, associazione mafiosa e associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico». Mori è pluriaccusato perché «pur avendone l’obbligo giuridico, non impediva, mediante doverose segnalazioni e/o denunce all’autorità giudiziaria, ovvero con l’adozione di autonome iniziative investigative e/o preventive, gli eventi stragisti di cui aveva avuto plurime anticipazioni» poi verificatisi a Firenze, Roma e Milano; nonché il fallito attentato allo stadio Olimpico «sebbene fosse stato informato, dapprima nell’agosto 1992, dal maresciallo Roberto Tempesta, del proposito di cosa nostra, veicolatogli dalla fonte Paolo Bellini, di attentare al patrimonio storico, artistico e monumentale della Nazione e, in particolare, alla torre di Pisa» e, qualche tempo dopo, anche dal pentito Angelo Siino «durante il colloquio investigativo intercorso a Carinola il 25 giugno 1993, il quale gli aveva espressamente comunicato che vi sarebbero stati attentati al Nord». Una motivazione, oserei, quasi artistica nella sua grotesquerie.

 

 

Ora, Mori alla gogna giudiziaria dovrebbe essere abituato. Dovrebbe. Con l’aritmia di uno straordinario civil servant, il generale ha passato gli ultimi 22 anni in una gogna chiusasi, definitivamente, con 5 assoluzioni e la sentenza della Suprema Corte nell’aprile 2024 che ha sconfessato le tesi accusatorie di ben tre processi, avvolgendole in un mero alone storiografico. Mori non si è mai lamentato con lo Stato a cui ha dedicato vita e carriera prima, e non ha esultato né cercato riscosse dopo.

Adesso i magistrati di Firenze –gli stessi che stanno inseguendo lo spettro di Silvio Berlusconi anche da morto- ci riprovano. E evitano a Mori «di poter trascorrere in tranquillità quel poco che mi resta della mia vita». Eppure, la sentenza assolutoria definitiva ne aveva riconosciuto la condotta esemplare. I giudici stabilirono che la «condotta di Mori ebbe come finalità precipua ed anzi esclusiva quella di scongiurare il rischio di nuove stragi; e effettivamente, come obbiettivo, quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati».

Per le toghe di Palermo Mori era mosso esclusivamente «da fini solidaristici e di tutela di un interesse generale- e fondamentale - dello Stato». In sostanza: Mori resta un benemerito della lotta alla criminalità, e la “Trattativa” soltanto il sogno di qualche pm temibilmente zelante. «Peraltro, le vicende di cui misi accusa sono già state ampiamente analizzate nel corso degli ultimi 25 anni dalle magistrature competenti (compresa quella fiorentina) e nei processi in cui sono stato coinvolto, senza che mi sia stato contestato alcunché, tantomeno i gravissimi reati ora ipotizzati dalla Procura di Firenze», rintuzza Mori.

 

 

Sicché l’uomo è «profondamente disgustato dalle Accuse che offendono, prima ancora della mia persona, i magistrati seri con cui ho proficuamente lavorato». Disgustato. E stanco. Mori mi confida ciò che più l’ha colpito: «La solidarietà. Ciò che mi dà forza e grinta (anche se, di grinta, non è che ne avessi bisogno) è la solidarietà della gente. E della politica. Il sottosegretario a Palazzo Chigi Mantovano e il ministro Crosetto sono i primi che mi hanno chiamato, via via gli altri. C’è un accanimento che non riesco a spiegarmi. Noti la data: avevano fissato il mio interrogatorio il 23 maggio, il giorno della strage di Capaci...». Provocazione palesissima. Dunque, dopo l’abbraccio di Mantovano e Crosetto, e la difesa di Rita dalla Chiesa, Mulè («siamo alla tortura un orribile necrologio in vita»), Gasparri, Cantalamessa, e del centrodestra in blocco; e dopo il silenzio urticante della sinistra; be’, al netto dell’indignazione e dell’assurdo, ecco sorgere spontanea la domanda.

Perché? Perché questa caccia al generale, tanto somigliante all’attentato dinamitardo ad un mondo che ingloba il senso dello Stato e il senso dell’onore, gli alamari dei carabinieri e l’orgoglio del ceto medio? Il tutto, guarda caso, alla vigilia di elezioni connotate più che mai da ideologie à la carte. Lite temeraria, ripeto. Anche per il pubblici ministeri. Nell’attesa che almeno il Csm prenda posizione su questa follia...

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