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Anm, offensiva contro il governo: "Progetti pericolosi"

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Giovanni M. Jacobazzi
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Il 36esimo congresso dell”Associazione nazionale magistrati, quello del “no a tutto”, come sottolineato sulle colonne di questo giornale dal togato indipendente del Consiglio superiore della magistratura Andrea Mirenda, si è chiuso ieri con una chiamata alle armi «per informare l’opinione pubblica» sugli asseriti pericoli della riforma della giustizia voluta dal governo Meloni. Nella mozione finale si invitano infatti - da subito- tutti gli iscritti «ad una mobilitazione culturale e comunicativa che faccia comprendere i rischi che questa comporta per l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e perla scrupolosa osservanza delle loro garanzie costituzionali».

Nulla di particolarmente nuovo, va detto, in quanto ogni volta che un governo decide di mettere mano al sistema giudiziario del Belpaese scattano in automatico i sit-in. Nella scorsa legislatura, ad esempio, quando si discuteva in Parlamento della riforma Cartabia che avrebbe dovuto eliminare il potere delle correnti della magistratura ed invece all’atto pratico lo ha amplificato a dismisura, venne addirittura indetta la «Notte Bianca sulla riforma dell’ordinamento giudiziario». «Il tema», ha spiegato il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, «non è discutere dei diritti dell’impiegato-magistrato, è un problema di cultura istituzionale e costituzionale. Non abbiamo da trattare, ma da parlare alla politica e alla società intera per dire che questa Costituzione ha ancora molto da dire, che non va toccata almeno per quanto riguarda la giurisdizione».

 



«Separare il pubblico ministero dal giudice, distinguere le carriere all’accesso e dal punto di vista ordinamentale, separare gli organi di autogoverno, porterebbe alla istituzione di una figura professionale di “pubblico persecutore”, molto lontana dall’attuale organo dell’accusa, che oggi è preposto alla ricerca della verità ed è garante del rispetto delle prerogative dell’indagato, anche nella fase della raccolta delle prove da parte della polizia giudiziaria», ha aggiunto Santalucia, secondo cui separare il pubblico ministero dal giudice avrebbe inoltre «gravissime ripercussioni sull’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale indispensabile per l’attuazione del principio di eguaglianza del cittadino dinanzi alla legge». Parole forti, peraltro pronunciate a Palermo, città che diede i natali e dove lavorò Giovanni Falcone, grande fautore della separazione delle carriere. Chiunque frequenti le aule di giustizia sa benissimo che la realtà è ben diversa, non essendoci nessuna sanzione per il pm che non raccolga le prove a favore del suo indagato. Ed anche l’obbligatorietà dell’azione penale è sostanzialmente impossibile da realizzare e già oggi i pm scelgono quali fascicoli mandare avanti e quali tenere fermi. Una discrezionalità che è di fatto un arbitrio.

Tornando comunque alla separazione delle carriere a cui è stata dedicata grande parte della mozione finale, l’Anm ha dimenticato di ricordare che l’unicità della giurisdizione in Europa esiste, a parte in Italia, solo in due ex Paesi comunisti, la Romania e la Bulgaria, e nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan, Stato che non è sicuramente da prendere a modello di democrazia. Anche in Francia non c’è separazione delle carriere ma vige un sistema processuale di tipo inquisitorio, come era in Italia prima del 1989, e tuttavia ci sono due Csm, uno per i giudici e uno per i pm. Quest’ultimi, poi, dipendono dal ministro della Giustizia per le promozioni e i trasferimenti. E nessuno si straccia le vesti o grida allo scandalo. 

L’elemento nuovo di questo congresso, ad ogni modo, è stato il ricompattamento delle correnti dell’Anm contro il governo in carica. In passato il clima era ben diverso. Per garantire l’unità dell’Associazione, ed evitare scissioni fra coloro che nutrivano perplessità sul fare opposizione all’esecutivo, venne ideato un meccanismo di rotazione annuale del presidente e del segretario generale dell’Anm così da accontentare tutti. Meccanismo che fu fatto saltare dall’allora presidente Piercamillo Davigo che decise di uscire con il suo gruppo dall’Anm per protestare contro le scelte «incomprensibili» del Csm. «Le riforme le fa il Parlamento e non l’Anm», ha commentato in serata l’avvocato Gian Domenico Caiazza che da presidente dell’Unione delle Camere penali aveva raccolto le firme per un referendum di iniziativa popolare proprio sulla separazione delle carriere. Per Antonio Leone, ex laico del Csm, «Santalucia parla di autonomia per consolidare il Dna di certa magistratura che la reputa una forma di impunità».

 

 

 

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