Saluto romano, la Cassazione: "Ecco quando non è reato"
Il saluto romano in manifestazioni pubbliche configura il reato di apologia di fascismo, andando a integrare la Legge Scelba del 1952, ma solo quando non ha finalità commemorativa. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, dove i giudici della Suprema Corte erano stati chiamati a decidere a sezioni unite sull’episodio che si verificò nel 2016 durante una cerimonia commemorativa per Sergio Ramelli, uno studente di 19 anni e militante del Fronte della gioventù assassinato nel 1975 da un gruppo appartenente ad Avanguardia operaia. La parola fine (forse) alle tante polemiche scatenate dalla sinistra in occasione di cerimonie commemorative come quelle di Acca Larentia.
Gli otto imputati, a processo risposero al grido presente con il saluto romano. Il dispositivo provvisorio emesso dagli Ermellini, spiega: “La ‘chiamata del presente’ o ‘saluto romano’ è un rituale evocativo della gestualità propria del disciolto partito fascista e i per i giudici è idonea a integrare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista”. I giudici della Cassazione spiegano che "a determinate condizioni può configurarsi" anche la violazione della legge Mancino che vieta "manifestazioni esteriori proprie o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi".
Il Pg della Cassazione, Gaeta, ha sottolineato nella requisitoria di questa mattina, come nel caso di Acca Larentia a Roma "il saluto fascista rientra nel perimetro punitivo della 'legge Mancino' quando realizza un pericolo concreto per l'ordine pubblico, con 5mila persone, è una cosa diversa rispetto a quattro nostalgici che si vedono davanti a una lapide di un cimitero di provincia e uno di loro alza un braccio".