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Giustizia? Una riforma necessaria che non arriva mai

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Pietro Senaldi
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La notizia è da sgranare gli occhi. Due giudici sono stati condannati dalla Corte dei Conti a risarcire lo Stato per giustizia lenta. Hanno preso in carica un processo nel 1985 e lo hanno concluso nel 2003, dopo diciotto anni. Altri venti ce ne sono voluti perché le toghe pagassero la loro sciatteria, o quantomeno lentezza. È un miracolo che dopo quasi quarant’anni tutti i protagonisti della vicenda siano ancora in vita. Probabilmente i magistrati perdigiorno saranno in pensione e il caso che non vestano più la toga può spiegarne la condanna. La parabola Davigo insegna infatti che solo quando lascia i tribunali un giudice diventa un cittadino come gli altri, e quindi condannabile.

L’entità della somma è piuttosto esigua: 5.650 euro per una quindicina d’anni. Se si dà per scontato che almeno tre ce ne vogliono per arrivare a sentenza, fanno 330 euro l’anno, giusto il costo di un abbonamento al cineforum parrocchiale. Però, come si dice in questi casi, conta il significato, bisogna guardare al bicchiere mezzo pieno. Il ministero della Giustizia aveva dovuto versare 44mila euro in tutto ai cittadini vittime del ritardo delle toghe e queste se la cavano rimborsando allo Stato poco più del 10% ma magari dal verdetto scaturirà una tendenza positiva. Cinquemila euro per un giudice non è una grossa cifra, specie se diluita in diciotto anni, però la casta in toga, come tutti i circolini del privilegio, non dà l’aria di essere ricca di personaggi che mettono mano al portafogli volentieri. Possiamo interpretare la sanzione come un timido, buon inizio, capace di far capire a chi sta in cattedra agitando il martelletto che ormai non è più concesso proprio tutto. E a questo proposito, a voler essere maliziosi, il verdetto dei magistrati contabili potrebbe essere interpretato come un messaggio del potere giudiziario alla politica. Si sa che il governo di centrodestra ha in programma una riforma della giustizia che punta a rendere il settore efficiente.

 

 

 

Il Guardasigilli Carlo Nordio voleva mettere mano ai codici subito ma l’agenda dell’esecutivo ha fatto slittare i tempi, anticipando la battaglia sul premierato, che sarà lunga e dall’esito incerto. Vuoi vedere che i magistrati, da sempre contrari a qualunque novità li riguardi, da loro interpretata comunque come un attacco all’indipendenza della categoria, si sono dati la sveglia e hanno cominciato a bacchettare le mele marce per inviare un segnale ai riformatori di rallentare ulteriormente il motore? Le guerre fanno male a tutti e, tra Berlusconi e Renzi, già un paio di cavalli di razza si sono bruciati sul tema giustizia. I giudici non sembra che possano comportarsi con la Meloni, malgrado il governo e Fdi lo temano, come con i succitati predecessori, per totale mancanza di materia prima; però sono ancora molto potenti e incutono timore al Palazzo.

 

 

 

Le toghe potrebbero aver maturato la convinzione che, se cominciassero, lentamente ma con decisione, ad autoregolamentarsi e a far capire anche ai colleghi più riottosi che non è più tempo di inchieste dalla sola valenza politica né di trattare il cittadino che si rivolge a loro come se neanche esistesse, la riforma potrebbe slittare ancora un po’. L’abbiamo sparata grossa? Forse, ma da trent’anni siamo abituati ad aspettarci di tutto quando i magistrati entrano in scena. 

 

 

 

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