Velletri, due anni di processo? Ma l'imputato era morto
Maurizio Reali è morto due anni fa, ma in tribunale, a Velletri, nel Lazio, dove era aperto un procedimento a suo carico per truffa e circonvenzione di incapace, se ne sono accorti solo giovedì scorso. Ciò che segue potrebbe essere un racconto breve di Franz Kafka, e potrebbe essere (più prosaicamente) persino una barzelletta, una di quelle che si raccontano al bar giocando a scopa: peccato che qui, da ridere, ci sia zero. C’è, semmai, che un tribunale, e gli avvocati, e le parti civili, sono andati avanti per sedici mesi di fila imperterriti, costi quel che costi e la giustizia non è mai gratis, paga sempre qualcuno, per gli uffici pubblici paga sempre il contribuente, cioè noi con le nostre tasse, senza avere la benché minima idea che il reato su cui si stavano accapigliando era estinto. A causa del decesso dell’imputato. Che un modo più sicuro per chiudere un incartamento proprio non esiste.
Tra l’altro i fatti contestati a Reali, che proprio uno stinco di santo non era ma questo non c’azzecca nulla, aveva una fedina penale bella corposa tra truffe, insolvenza fraudolenta, simulazione di reati, false attestazioni, furto, minacce a pubblico ufficiale e pure appropriazione indebita, risalgono al 2018. Ossia a prima della pandemia: che messa così sembra un’era geologica addietro, invece è “solo” un lustro fa e, forse, basterebbe questo. Giustizia ritardata, giustizia negata: in questo caso giustizia sfumata.
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Nel 2018 Reali ha 45 anni. È di Valmontone, una cittadina di 15mila abitanti nell’aerea metropolitana romana. Un giorno conosce una donna di 62 anni mentre sta viaggiando in treno. Attacca bottone, inizia a corteggiarla, si fa dare il suo numero di telefono. Lei, la signora, ha qualche deficit psichico e cede alle lusinghe di questo ragazzotto un po’ su con gli anni ma più giovane di lei che più le settimane passano più la riempie di attenzioni. Nasce un rapporto, sempre più stretto, e la 62enne si apre, si confida.
Confida, per esempio, a Reali, che la sua posizione è benestante. Ha una casa di proprietà, ha una buona pensione, vive con la figlia. Non tanto la terza, ma le prime due comunicazioni devono colpire Reali dritto al cuore (mettiamola così) e, infatti, dopo una corte serrata, le confessa il suo totale amore.
S’è innamorato, Reali. E convince la sua nuova “compagna” ad aprire un conto corrente bancario e farselo cointestare, che non è proprio un anello di diamanti con la dichiarazione in ginocchio e un mazzo di rose sul tavolo, anzi è l’esatto opposto, però lei si fida. Vanno in una banca, a Valmontone. Entrano a braccetto, come una coppia qualsiasi.
Carta d’identità e qualche scartoffia da firmare: è fatta. È fatta soprattutto per Reali che, da quel giorno, inizia a prelevare i soldi da quell’Iban “fortunato”. Prima piccole somme, poi alza il tiro e alla fine riesce a mettere da parte circa 16mila euro. C’è solo un aspetto della faccenda che gli sfugge. Gli estratti conto la signora 62enne non se li fa mandare tramite email con l’homebanking che usa adesso. È vecchia scuola, lei. Li riceve a casa. Ma a casa c’è la figlia che ci butta un occhio e s’insospettisce. Ma-vuoi-vedere-che-mamma... E va dai carabinieri e presenta denuncia e iniziano le indagini e vengono nominati i legali. Reali non ne ha uno di fiducia, gli appioppano quello d’ufficio e, come se non bastasse, lui, l’imputato, presto si rende irreperibile.
Passano i mesi, passano le udienze, passano anche i difensori di Reali perché a ogni convocazione c’è un cambio, e arriviamo al 16 novembre scorso. Viene chiamata in aula la direttrice dell’istituto di credito dove i due hanno aperto il conto corrente nel 2018 e candidamente, davanti alla corte e alle parti presenti (tutta tranne una, ovviamente) sostiene di essere venuta a conoscenza della morte dell’imputato. Silenzio. Sguardi smarriti. Fronti aggrottate. I carabinieri verificano all’ufficio anagrafe e toh, viene fuori che Reali sì, è morto d’avvero, nel luglio del 2021.
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«Gli avvocati di fiducia hanno un rapporto non dico quotidiano, ma quantomeno periodico coi propri assistiti. Per quelli d’ufficio è diverso», spiega a Libero l’avvocato Marco Biagioli del foro di Grosseto, «al momento della nomina da parte del tribunale c’è l’obbligo di scrivere una raccomandata per presentarsi e anche per valutare una strategia difensiva. Dopodiché questa persona può legittimamente fregarsene e non rispondere, ma l’avvocato porta comunque avanti il processo in scienza e coscienza facendo le scelte processuali che reputa. Nessuno controlla più fino a che non viene fatta la sentenza: a quel punto è necessario farsi dare una apposita delega per presentare appello».