Michele Santoro nel mirino dei giudici? Toh, scopre le loro malefatte
Ieri mattina ci siamo svegliati con lo sfogone di un garantista a ventiquattro carati, una versione millennial di Cesare Beccaria, un emulo di Tortora, persecuzione compresa. Il piatto forte l’ha servito L’Unità sotto forma di una lenzuolata interminabile, due paginate che non costituivano esattamente un invito alla lettura. Quel che conta, del resto, era il format: nientemeno che un appello al presidente della Repubblica. E la firma: Michele Santoro. Proprio così, Michele Santoro. Colui che ha costruito la propria carriera sul giustizialismo televisivo e fin sacerdotale, colui che ha menato le danze del circo mediatico-giudiziario come nessun altro, colui che ha avallato in diretta qualunque patacca accusatoria contro l’avversario politico (do you remember Massimo Ciancimino eretto a star catodica?), improvvisamente si accorge di una serie di quisquilie della civiltà del diritto italica. I magistrati, a volte, diffondono atti coperti da segreto. I magistrati, a volte, imbastiscono campagne che attengono più all’organo politico che a quello giudiziario. I magistrati, a volte, saccheggiano la vita delle persone con profondità da Ddr più che da democrazia liberale, anche al di là del merito penale. Perfino, udite udite, i magistrati a volte s’innamorano dei propri teoremi.
MICHELE VS MICHELE
Strabiliante. Santoro demolisce il santorismo, in pratica, creatura ibrida giornalistico-partitica che in questo Paese ha spesso fatto le veci della sinistra ufficiale. E a cosa è dovuta, cotanta presa di coscienza lievissimamente fuori tempo massimo? Ma al fatto che a Michelone è toccato di subire le storture del “sistema” in toga sulla propria pellaccia, è ovvio. Come successo di recente a Piercamillo Davigo, che ha scoperto il garantismo a settant’anni in quanto oggetto di una condanna per rivelazione di segreto d’ufficio, gli idoli giustizialisti cadono solo quando sono colpiti dalla loro stessa furia. Nella fattispecie, Santoro si lamenta con il senso della misura che gli è proprio, quindi scrivendo a Mattarella, delle indagini che la procura di Caltanissetta ha condotto sul pentito di mafia Maurizio Avola, fonte principale del libro Nient’altro che la verità, che il giornalista ha scritto con Guido Ruotolo. I due, Santoro e Ruotolo, hanno finito quindi per essere concretamente coinvolti in quanto “raccoglitori” delle confidenze di Avola, secondo i pm finalizzate a innescare un depistaggio sull’attentato a Paolo Borsellino.
LA LETTERA
«Prima ancora che Nient’altro che la verità venisse distribuito nelle librerie», stigmatizza Santoro nella lettera-appello «la stessa Procura, a indagini ancora aperte, in maniera del tutto irrituale e certamente non conforme ai principi codificati, aveva emesso un comunicato che si spingeva a ipotizzare un depistaggio a cui il collaboratore di giustizia aveva partecipato con la complicità dei giornalisti». Mentre, è storia patria, i magistrati a cui Santoro ha offerto negli anni pulpiti in serie per distribuire, ad esempio, patenti di mafiosità a Silvio Berlusconi, da Antonino Ingroia a Luigi De Magistris, agivano sempre sobriamente e in maniera “conforme ai principi codificati”. Continua il nostro: «Negli atti d’indagine, finalmente a mia disposizione, sono venuto a conoscenza di attività investigative estremamente invasive, quali l’uso del trojan nei miei confronti».
Povero Michele, i cattivoni delle procure gli hanno messo il trojan. Quando però si trasformavano in guardoni compulsivi, radiografando quel che accadeva durante libere cene tra liberi adulti consenzienti in quel di Arcore, come se ci trovassimo in una Repubblica islamica, lui ci montava sopra trasmissioni intere. In ogni caso, nella sua vicenda «si ricava la sensazione che tutto sia stato generato per confermare un teorema». Notevole, l’inventore del teorema come manganello tivù (fin dagli esordi a rimorchio della ridda manettara di Mani Pulite con Samarcanda) che disconosce l’invenzione. Ora infatti il punto è «il trattamento da criminali a cui siamo stati sottoposti, la registrazione dei colloqui, gli appostamenti agli incontri, la nostra vita passata al setaccio». Uno scandalo a cui deve porre rimedio il Colle più alto. Michele, va bene tutto, benvenuto nel club, ma non eccedere, non prenderci sempre e comunque per fessi.