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Davigo? Una scelta impensabile: chi chiama come suo avvocato

Francesco Specchia
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Vorremmo entrare in questi giorni nella mente aguzza, indecifrabile, raffinatissima - di Piercamillo Davigo. Chissà quale tormento l’attraversa. E, nella sua personale notte manzoniana dell’Innominato, in quell’uragano di saette e rimorsi; be’, ci chiediamo quanti tumulti scuotano l’animo del magistrato.

Davigo, la toga fieramente giustizialista, l’uomo per cui non esistevano «innocenti ma colpevoli ancora da scoprire», oggi pare convertito a un’idea garantista del mondo. Pare. Da quando è stato condannato in primo grado dal Tribunale di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio nel caso della “Loggia Ungheria”, Davigo si sente vittima dell’ingiustizia degli uomini. Oggi, planato nel mondo dei condannati in attesa fremente della seconda istanza, l’ex di Mani Pulite ha compiuto un altro gesto inimmaginabile nella sua vita precedente. Ha potenziato il suo team di legali arruolando Davide Steccanella l’avvocato degli “indifendibili” Cesare Battisti e Renato Vallanzasca: di quelli che Davigo chiamerebbe «i mascalzoni» e non senza ragione.

NATURA ACCUSATORIA
La notizia la rivela l’ottimo Luciano Capone sul Foglio: «Nei giorni scorsi, l’ex pm di Mani pulite ha depositato presso la Corte d’appello di Brescia il ricorso di 30 pagine contro sentenza la condanna del Tribunale bresciano», indicano il neo difensore. Capone sottolinea il carattere arcaico della nemesi: un magistrato iper-giustizialista si trasforma in imputato e intreccia il proprio destino con quello di un avvocato iper-garantista. Tra l’altro non un avvocato iper-garantista qualsiasi. Ma il principe del foro degli iper-garantisti, colui che nel suo libro La giustizia degli uomini Davigo lo condannava senza requie. Tra quelle pagine, il magistrato veniva rappresentato come un modello negativo in contrapposizione a Ilda Boccasini, pm tignosissima pure lei ma con un alto senso dello Stato e della discrezione. Steccanella dedicava al Piercamillo un capitolo ad hoc, gli riconosceva abilità e preparazione, ma non equilibrio: «È un vero peccato che, a un certo punto, abbia deciso di fare il giudice, prima in corte d’appello, poi in cassazione e infine come giudice dei giudici al Csm.

 

Ritengo che ciascuno dovrebbe assecondare la propria indole, e quella di Davigo era ontologicamente accusatoria, cosa che lo portava a ritenere non esistessero imputati innocenti, ma solo imputati che erano riusciti a farla franca. Ciò gli impediva, nonostante l’indubbia preparazione giuridica e l’arguzia di pensiero, di avere quell’equilibrio necessario per chi è chiamato a giudicare e non ad accusare». Ora, Davigo per molti noi studenti di giurisprudenza degli anni 90 era visto come una sorta di mito popolare. Confesso che, per una generazione di neofiti delle pandette infiammati da un’idea quasi cinematografica della giustizia, Davigo, Colombo, Di Pietro e Borrelli erano i quattro dell’Ave Maria, i cavalieri dell’Apocalisse con i codici al posto del revolver. E il dottor Davigo per la sua acribia processuale, per il suo rigore morale nascosto dietro le lenti da topo di biblioteca, be’, era il mio preferito.

Perciò la delusione fu immensa quando, anni dopo il fallimento di Tangentopoli, Davigo continuò a nutrire i suoi demoni giustizialisti nelle prese di posizioni politiche in tv; nelle frasi tipo «ci sono troppe impugnazioni» o «tutti quelli che in questo paese dicono di essere garantisti pensano soltanto a garantire i diritti dei delinquenti»; nella sua divisione del mondo tra «delinquenti» e «persone perbene» col sottinteso che i primi debbano avere meno diritto dei secondi. Che poi sarebbe uno sfregio ai concetti costituzionali di “giusto processo” e di “presunzione d’innocenza” e un’aberrazione per chi ritiene che debba esserci, banalmente, un sacro diritto alla difesa.

 

COME CALAMANDREI 
Ora, il dottor Davigo resta grande professionista e persona dabbene. Almeno fino a prova - e tra gradi di giudizio - contrari. E ci rendiamo davvero conto del tormento di quest’uomo, di quel ritrovarsi in uno stallo lacerante. Un impasse che lo spinge ad affidarsi a Steccanella, avvocato di alto rango in grado di distinguere sempre e comunque il diritto alla difesa dal dovere dell’etica (io non sarei in grado, è il motivo perché ho scelto un altro mestiere). Credo che, in questi giorni, il dottor sottile del pool stia riflettendo sulla scomodità di sentirsi reo sapendo di non esserlo. E anche sul pensiero di Calamandrei quando affermava che bisognerebbe che ogni avvocato, due mesi all’anno, «facesse il giudice; e che ogni giudice, per due mesi all’anno, facesse l’avvocato. Imparerebbero così a comprendersi e a compatirsi e reciprocamente si stimerebbero di più». Credo che nella mente di Davigo stia lampeggiando la folgore dei giusti (che non sempre coincide con quella della giustizia). Certo, nei pubblici consessi e in tv, caro dottor Davigo, dovrebbe almeno sospendere l’eloquio moraleggiante da inquisitore; perché fino alla fine dei processi resta attaccabile da chiunque la pensava come lei. Le auguriamo di uscirne a testa alta, confidando magari un po’ di più nella misericordia dei giudici...

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