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Paolo Borsellino, Sallusti: nelle lettere della famiglia, la verità su chi lo osteggiava

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Vincenzo Scarantino, classe 1965, mafioso di basso livello, viene arrestato per spaccio di droga il 29 settembre 1992. Due mesi dopo si dichiara pentito e inizia a collaborare sostenendo che il suo clan riforniva di droga Silvio Berlusconi, una accusa incredibile subito scartata. Nel giugno del 1994 il colpo di scena: Scarantino si autoaccusa della strage in cui morì il giudice Borsellino e fa i nomi dei complici. Al processo, iniziato nel 1999, il tribunale di Caltanissetta emetterà nove sentenze di ergastolo e una a 18 anni per Scarantino. Ma c’è un problema: non era vero nulla, proprio nulla. E lo si scopre solo nel 2008 quando un altro pentito, Gaspare Spatuzza, sbugiarda Scarantino e racconta un’altra verità.

Di fronte all’evidenza lo stesso Scarantino ammetterà di essersi inventato tutto. È una delle pagine più buie e vergognose della giustizia italiana costretta a scusarsi pubblicamente e a liberare gli ergastolani per caso.

 

 

Che Scarantino non fosse attendibile se ne era accorta all’epoca dei fatti anche Ilda Boccassini che, non ascoltata, lasciò proprio per questo la procura di Caltanissetta. Ma nonostante ciò la macchina infernale della giustizia impazzita continuò la sua corsa guidata dai procuratori Giovanni Tinebra, Carmelo Petralia e Annamaria Palma assistiti da un giovane pm, quel Nino Di Matteo che diventerà poi una star della magistratura antimafia fino ad approdare al Csm.

Nel 2017, Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato, nel venticinquesimo anniversario dell’uccisione del padre, scrive una accorata lettera al Csm nella quale si chiede di fare chiarezza anche all’interno della magistratura su quanto successo. E cosa accade? Lo racconta Luca Palamara, allora potente membro del Csm: «Acquisimmo gli atti del processo Borsellino e aprimmo una discussione in prima commissione, quella che si occupa dei procedimenti disciplinari. Fu una discussione molto accesa ma detto in onestà non ci fu mai l’intenzione di andare fino in fondo. Primo perché era passato troppo tempo per accertare una verità oggettiva, secondo perché sulla vicenda aleggiava il nome di Nino Di Matteo, in quel momento tra i più potenti e protetti magistrati italiani. Insomma, abbiamo fatto ammuina, come si dice a Napoli. Non abbiamo neppure convocato, almeno per dare un segnale alla famiglia Borsellino e al Paese, i magistrati che gestirono quel depistaggio, tantomeno Di Matteo».

 

 

Fiammetta Borsellino e la sorella Lucia però non si arrendono e l’anno successivo, siamo nel 2018, si recano nell’ufficio del procuratore generale Riccardo Fuzio, in quel momento la massima autorità giudiziaria italiana, fornendo elementi che a loro dire avrebbero potuto dare avvio a una istruttoria, a una azione di accertamento delle responsabilità sul piano disciplinare dei magistrati coinvolti. Vengono sentite, raccontano fatti, vicende e situazioni. Passa un anno senza che nulla accada e nel 2019 poco prima di lasciare l’incarico Fuzio scrive una lettera di scuse alle sorelle Borsellino per non essere riuscito a dare seguito alla loro sete di verità e giustizia, lettera alla quale le due signore rispondono con fredda lucidità e in modo esemplare.

Le tre lettere di cui abbiamo parlato, sconosciute ai più e pubblicate per la prima volta nel libro Lobby e Logge che ho scritto raccogliendo i ricordi di Luca Palamara, le trovate riprodotte in questa pagina e sono parole che smascherano più di qualsiasi altra cosa l’ipocrisia di queste ore su chi è stato in questi anni dalla parte di Borsellino e chi no. Perché provano che tra “chi no” c’è un bel pezzo di quella magistratura di sinistra (Borsellino era uomo convintamente di destra) che sostenuta da tanti giornalisti complici, millantando il nome di Borsellino e usando come scusa la lotta alla mafia, rifiuta di essere riformata. Paolo Borsellino, come Giovanni Falcone, all’epoca fu osteggiato e lasciato solo dai colleghi magistrati, le indagini sulla sua morte furono prima clamorosamente sbagliate e poi insabbiate dagli stessi colleghi, per lo più quelli che non hanno ritenuto degna Giorgia Meloni di partecipare da premier alla fiaccolata di commemorazione che si è svolta ieri, giorno del trentunesimo anniversario della strage. A leggere le tre lettere viene da dire che questa magistratura non andrebbe riformata bensì rivoltata come un calzino, rivoltata proprio nel nome di Paolo Borsellino.

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