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Magistratura, l'esercito di giudici allergico alla democrazia

 Domenico Airoma

Domenico Airoma
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Le recenti polemiche tra Associazione Magistrati e Governo sembrano riproporre un antico cliché. Ma è proprio così? Con la morte di Silvio Berlusconi sembrava essersi chiusa definitivamente la stagione del conflitto fra magistratura (o, almeno, una parte significativamente egemone della stessa) e la politica. Il comunicato della Giunta Esecutiva dell’Anm in ricordo del Cavaliere, nel qualificarlo come «indiscusso protagonista per un lungo ed importante periodo della vita politica del Paese», pareva davvero segnare la fine di un’epoca.
Ma non è stato così.

Molte le reazioni di insofferenza fra i magistrati, e non solo della cosiddetta sinistra giudiziaria, rispetto a questa sorta di armistizio con la politica (o almeno una parte di essa), decretato dai vertici del sindacato delle toghe. Not in my name, è stato il grido di battaglia. Prima ancora, vi era stato il sussulto bellico della minaccia di sciopero seguito alla vicenda del promovimento dell’azione disciplinare da parte del Ministro nei confronti dei magistrati ritenuti responsabili della fuga dell’oligarca russo. Ancora una volta, però, l’Anm si era vista costretta a derubricare l’astensione a stato di agitazione, per la conclamata incapacità di mobilitare i propri iscritti. Che sembravano, invece, essersi davvero agitati davanti alle riforme prospettate dal Ministro Nordio. O almeno, così pareva. La realtà, ancora una volta, non collimava con i desideri dei vertici associativi. Le cronache, infatti, non registravano significative sollevazioni di magistrati, preoccupati piuttosto delle devastanti ricadute della Riforma Cartabia, così poco convintamente avversata dalla stessa Anm.

 

 

L’abolizione di un’ipotesi di reato, quale l’abuso di ufficio, già di fatto estromessa dall’orizzonte investigativo per la sua sostanziale inconsistenza repressiva, non era riuscita a scaldare i cuori dei tanti giudici alle prese piuttosto con la fulminea riscrittura dei codici voluta dall’ex Ministro. E neppure la ventilata separazione delle carriere risultava in cima alle preoccupazioni delle toghe, evidentemente aliene dall’attribuire a tale ipotesi di riforma ordinamentale una portata eversiva dell’ordine democratico.

Ed ecco, però, il colpo di scena. Quasi una manna dal cielo. Alcuni provvedimenti giudiziari, adottati in procedimenti nei confronti di indagati eccellenti, tempestivamente resi pubblici da quel circuito mediatico-giudiziario da tempo rimasto in condizione di inedia, con le conseguenti esternazioni politiche, parevano riaprire spazi vitali per l’Anm in cerca di consenso interno ed esterno alla magistratura.

Ma ancora una volta così non è stato. Pressocché immediatamente il segretario della corrente in questo momento maggioritaria nell’Anm, Magistratura Indipendente, prende di fatto le distanze, invitando ad abbassare i toni. Esponenti politici e non solo, anche di area non governativa, rimangono abbastanza freddi alla chiamata alle armi, constatando impietosamente come la perdita di autorevolezza e credibilità della magistratura sia l’effetto, più che delle scelte o delle uscite più o meno fuori posto di esponenti governativi, di una postura della magistratura assai poco istituzionale.
E qui occorre soffermarsi.

Che una parte della magistratura avesse scelto di usare la giurisdizione, per nuovi ed alternativi assetti di potere, era cosa nota e dichiarata dagli stessi promotori, tanto da costituire dato ritenuto indiscutibile da autorevoli studiosi, per niente pregiudizialmente ostili ai magistrati e però assai critici per l’appannamento dell’imparzialità che una tale prospettiva aveva causato.

 

 

Che la vicenda Palamara avesse poi fatto emergere una condizione di sofferenza morale del corpo magistratuale, era altrettanto evidente. Quel che pure era chiaro è che tutto questo non poteva non privare di autorevolezza chi, senza aver fatto un adeguato esame di coscienza, ora si ergeva a giudice della politica.

Sicché all’insofferenza dei magistrati, si era venuta contrapponendo un’insofferenza che si estendeva ben al di là di Palazzo Chigi o delle aule parlamentari; in un conflitto che vede la magistratura soccombere, con tanto di certificazione della caduta vertiginosa dell’indice di fiducia del corpo sociale nei suoi confronti.

E tuttavia, il quadro fin qui descritto non può dirsi completo. E si illuderebbe chi pensasse che la questione sia solo fra un’Anm in crisi di rappresentanza ed un Governo che vuole tornare ad avere (o continuare ad avere, sulla scia del Governo precedente) un ruolo da protagonista sulla scena legislativa.
Vi è una insofferenza molto più pericolosa. E non solo per il Governo, ma per la democrazia e le istituzioni del nostro Paese. Ed è di quei magistrati che teorizzano e praticano, attraverso le sentenze, l’intervento creativo della norma, pretendendo di colmare vuoti laddove non ci sono, come nella gestazione per altri o nel fine vita.

Cancellando il principio della separazione dei poteri, squalificando voto popolare e aule legislative come fattori di ostacolo alle nuove e magnifiche progressive sorti dell’umanità. Con conseguenze devastanti sulla dignità delle donne, dei bambini, dei fragili. Ecco rispetto a costoro, che chiamano ad una resistenza costituzionale, ma bypassano la Carta costituzionale e la Corte Costituzionale, quando non confacente ai propri disegni, va praticata una resistenza istituzionale, rimettendo al centro le istituzioni e le loro prerogative. Giacché è su questo che si fonda lo Stato di diritto, dove governa la legge e non la volontà arbitraria degli uomini, anche se indossano una toga. Tutto ciò non significa che le leggi non si possono criticare, né che non si possano prospettare, a chi è chiamato a farle, possibili rischi o controindicazioni. La questione è di stile, ma la forma - nei rapporti fra le istituzioni- è sostan za. La magistratura abbandoni l’insofferenza alla leale applicazione della legge e riacquisterà quella credibilità che le permetterà anche di sollevare critiche alle norme che è chiamata ad applicare. E se la legge non è in sintonia con i principi di riferimento del magistrato, non vi è altra strada che partecipare al dibattito culturale pubblico, allo scopo di promuoverne l’abrogazione o la modifica; ma come cittadino, mettendo da parte la toga. Sono le regole del gioco democratico, né più né meno. Vanno rispettate da tutti, magistrati e politici. Fare gli insofferenti o, peggio, gli indifferenti non va bene. Soprattutto quando lo si fa in nome del popolo italiano. 

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