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Filippo Facci: tutte le menzogne di Travaglio per colpire Carlo Nordio

Filippo Facci
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Quelle che seguono sono parole dette, scritte, stampate e ristampate di Giovanni Falcone sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa: «La Legge La Torre (416 bis), studiata per perseguire specificamente il fenomeno mafioso e per porre rimedio alla mancanza di prove, dovuta alla limitata collaborazione dei cittadini e alla difficoltà intrinseca nei processi contro mafiosi di ottenere testimonianze, non sembra abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta».

Verrebbe da chiuderla qui, con le parole di Falcone nel libro «Cose di Cosa Nostra» (Rizzoli 1991) che è il longseller sulla mafia più venduto della storia: se non fosse che, oggi, ci sono personaggi che dicono giusto il contrario: «Smantellare il concorso esterno in associazione mafiosa come annunciato da Nordio», ha detto Salvatore Borsellino, di professione fratello e testimonial, «vuole dire sconfessare apertamente la legislazione voluta da Falcone e Borsellino». Questa sciocchezza è stata detta a Repubblica, ma, anche sul Fatto Quotidiano, la morale si riaggiornava nell’editoriale di ieri: «Sta alla Meloni decidere se la sua destra è quella di Borsellino o quella di Berlusconi». Ma è storia vecchia: già il 9 marzo 2012, sullo stesso argomento, Il Fatto titolò «Bocciato Falcone» quando il concorso esterno per mafia fu messo in discussione.

Ma Falcone e Borsellino, per così com’è ora, di quel reato non ne fecero mai uso: ciò che nel resto d’Occidente chiamano «favoreggiamento» (magari aggravato) a cavallo degli anni Novanta fu loro sufficiente a imbastire il Maxiprocesso che inchiodò centinaia di mafiosi grazie a prove imperniate su migliaia di testimonianze e su migliaia di riscontri inappuntabili; il 17 luglio 1987 c’era la firma di Falcone in una delle prime sentenze che prefiguravano il concorso esterno in associazione mafiosa, è vero, e nell’ordinanza del cosiddetto «maxi-ter» il giudice si pose effettivamente «il problema dell’ipotizzabilità del delitto di associazione mafiosa anche nei confronti di coloro che non sono uomini d’onore, sulla base delle regole disciplinanti il concorso di persone nel reato» (Tribunale di Palermo, Ufficio Istruzione, 1987, p. 429) ma, nei fatti, Falcone e Borsellino non si sognarono mai di contestare questo reato da solo, senza un corollario di altre e individuate ipotesi.

 

 

 

GIURISPRUDENZA CREATIVA

Poi sappiamo, i due giudici furono ammazzati e in nome di una molto presunta «continuità», rivendicata dai «caselliani» di Palermo dal 1993, una giurisprudenza creativa fece sommare due diverse ipotesi di reato: il «concorso» previsto dall’art.110 e poi l’«associazione mafiosa» prevista dall’art. 416 bis. La magistratura, in pratica, da sola, ritenne di dover colmare una lacuna legislativa, e creò una configurazione generica le cui applicazioni saranno continuamente riplasmate da varie sentenze della Cassazione: questo a dispetto dei supposti «principi molto rigorosi» con cui le Sezioni unite della Suprema Corte cercheranno più volte di disciplinarla.

Ne venne fuori un mostriciattolo giuridico - si perdoni la necessaria parentesi tecnica- che doveva realizzarsi quando una persona pur non inserita in una struttura mafiosa svolga un’attività anche di semplice intermediazione utile a questa struttura; le sezioni unite della Cassazione, il 5 ottobre 1994, dapprima la misero giù così: il concorso doveva riguardare «quei soggetti che, sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscano, sia pure mediante un solo intervento, un contributo all’ente delittuoso tale da consentire all’associazione di mantenersi in vita». Ergo, il concorrente esterno doveva aver manifestato una chiara volontà di partecipare all’associazione nella consapevolezza di concorrere a programmi criminali. Il semplice supporto (agevolazione, fiancheggiamento, compartecipazione in un singolo reato) perciò non poteva e doveva bastare. Poi ci fu l’importante sentenza Mannino del 2005, che fece giurisprudenza, come si dice: si stabiliva che il «partecipe» fosse colui che risultasse inserito organicamente in un’associazione mafiosa, «da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status», ma con un «concreto, specifico, consapevole, volontario contributo».

L’opposizione a questo non-reato è sempre stata politicamente trasversale da destra a sinistra. L’abolizione del concorso esterno fu proposta nel 1996 dal diessino Pietro Folena, il quale, poi, malvoluto da Valter Veltroni, lasciò il partito s nel 2005. Poi l’ex sindaco meneghino Giuliano Pisapia, da presidente della Commissione giustizia della Camera, fece una proposta di legge «volta a superare l’equivocità giuridica sull’ipotesi definita “concorso esterno in associazione mafiosa”... una nuova figura di reato non prevista da alcuna norma di legge e in contrasto con il principio di tassatività della norma, che è uno dei cardini dello Stato di diritto». Una norma aberrante che poteva essere contestata anche a medici che avevano curato ritenute mafiose, a sacerdoti che le avevano confessate, a vittime di estorsioni che avevano pagato.

 

 

 

L’OFFENSIVA ANTI-CAV

Nel settembre 2003 fu Silvio Berlusconi a criticare il concorso esterno in associazione mafiosa: l’Unità titolò subito «Contro di noi, contro Falcone» con l’annessa intervista a vari procuratori palermitani (Grasso, Scarpinato, Lo Forte, Natoli) che dipinsero le affermazioni di Berlusconi come «gravemente offensive» nei confronti di Falcone. Poi l’abolizione di questo non-reato fu riproposta dalle commissioni Pagliaro, Grosso e Nordio: ma niente da fare, il leitmotive che risuonava era sempre che cancellare quel «reato» significava fare il gioco della mafia. Nei fatti, non utilizzare quel tipo di reato poteva rivelarsi una carta più credibile: in occasione dell’inchiesta su Salvatore Cuffaro, per esempio, il pm Antonio Ingroia voleva imputare il 416 bis, e però Pietro Grasso, allora capo della Procura, propose il favoreggiamento come arma vincente. Ebbe ragione lui. Non mancheranno giudici che pulendosi accuratamente gli occhiali si limiteranno ad appurare che «il concorso esterno», come legge, non esiste e non esisteva.

Accadrà per esempio a un gup di Catania (gup sta a giudice dell’udienza preliminare) che si chiama Gaetana Bernabò Distefano e che decise di prosciogliere l’editore Mario Ciancio Sanfilippo, appunto dall’accusa di concorso esterno, mettendo nero su bianco, in una sola e scarna paginetta, che «il fatto non è previsto dalla legge come reato», perché in effetti nel Codice non c’è. Una banalità rivoluzionaria. E si arriva all’oggi: il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha partecipato a un dibattito e ha detto che sarebbe necessario «rimodulare» il concorso esterno, ripetendo lo stesso concetto in un’intervista a Libero. Il giorno dopo, il Fatto Quotidiano lo ha accusato di «voler salvare pure i politici mafiosi», titolone di prima pagina. Direttori di giornale, eminenti giuristi e uomini di legge intanto attendono acquattati che il concorso venga «rimodulato» per poter dire, e scrivere, che era ora. 

 

 

 

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