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Davigo, Colombo e Di Pietro? Giardinetti, trattori e processi: che brutta fine

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Gherardo Colombo porta il cane a spasso nel centro di Milano e va in giro dicendo, nonostante abbia firmato quando era in servizio decine di richieste di custodia cautelare, che il carcere «non serve a nulla e rende la società pericolosa». Antonio Di Pietro, dopo aver gettato la toga alle ortiche ed essere stato candidato nel 1996 da Massimo D’Alema nel collegio blindato del Mugello, ha fondato e chiuso un partito, l’Italia dei valori. Adesso è su un trattore in Molise e prepara il terreno per la semina delle patate. Francesco Greco, pur sotto scorta anche quando andava in bagno, è riuscito nell’impresa di perdersi il telefono che i colleghi di Brescia gli avevano chiesto per verificare se si fosse scritto con il pg della Cassazione Giovanni Salvi a proposito della condotta del pm Paolo Storari. Per la cronaca anche Salvi si era perso il telefono nello stesso giorno. Nonostante questa distrazione, il sindaco di Roma, il piddino Roberto Gualtieri, lo ha nominato responsabile della legalità del Campidoglio. Davigo, il più famoso di tutti, ha cercato di far passare come massone il collega antimafia Sebastiano Ardita, con cui aveva scritto libri e fondato- addirittura- una corrente della magistratura italiana che solo il nome mette timore: Autonomia&indipendenza.

 

 

 

È una fine quanto mai impietosa quella degli idoli di Mani pulite che vollero fare la rivoluzione spalancando le porte al giustizialismo più becero e volgare. Per trent’anni, come le vecchie rock band che propongono sempre lo stesso repertorio, i magnifici pm di Mani pulite sono riusciti nell’impresa di monopolizzare tv e giornali per raccontare quella stagione eroica. Scomparsi da tempo i procuratori dell’epoca, Gerardo D’Ambrosio e Francesco Saverio Borrelli, Davigo, Di Pietro, Colombo e Greco, come un disco incantato, hanno descritto un’Italia dove si rubava su tutto. Sconfinata l’aneddotica. Chi potrà dimenticare gli interrogatori “multitasking” di Di Pietro? Per evitare che gli indagati comunicassero fra loro, anche tramite i loro avvocati, egli era solito convocarli tutti insieme in una stanza del Palazzo di giustizia di Milano dove erano presenti 11 postazioni con dei computer. Alla tastiera e al mouse personale delle Forze di polizia, carabinieri, finanzieri, vigili urbani. Un gioioso mix di divise al servizio di Tonino da Montenero di Bisaccia. Qui, come Garri Kasparov senza gli scacchi ma con la toga, si alternava di postazione in postazione interrogando i vari malcapitati, politici o membri di consigli di amministrazione di società sospettate di pagare le mazzette.

 

 

 

Questo stratagemma sarebbe servito ad impedire che venissero concordate le deposizioni. Una volta, come nei migliori film polizieschi degli anni ’70, Di Pietro prese invece dei faldoni, li fece riempire con carta di giornale per fare spessore e li posizionò sulla scrivania. Quando entrò l’imputato disse: «Queste sono le contestazioni alle quali deve rispondere. Da dove cominciamo? Ne prendo una caso?». Cosi facendo terrorizzò l’indagato che confessò tutto. La gente, ascoltandolo, rideva, ma non c’era nulla da ridere. Davigo, che venne eletto anche presidente dell’Associazione nazionale magistrati, non perdeva occasione per affermare che la magistratura italiana è la migliore del mondo occidentale e i magistrati italiani sono i più produttivi ed efficienti. «Citofonavamo e già cominciavano a confessare le tangenti», ripeteva Davigo.

 

 

 

Di quel periodo che ha cambiato la storia, però, nessuno tranne un paio di anni fa il giudice Guido Salvini, ha raccontato il “trucco” escogitato dal pool per evitare incidenti di percorso. Si trattava del fascicolo che in realtà non era tale ma era un “registro” che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall’essere da gestite dal pool. Il numero con cui iscrivevano qualsiasi novità che riguardasse tangenti in tutti i settori della Pubblica amministrazione era sempre lo stesso, il 8655 del 1992, quello del Pio Albergo Trivulzio, un fascicolo estensibile a piacere, tra l’altro anche a vicende per cui la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano non esisteva. Questo espediente dell’unico numero impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell'unico gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool. Un paio gli anni dopo, nel 1994, Ghitti divenne consigliere del Csm. «Un’elezione e un prestigioso incarico propiziati quasi esclusivamente dall’essere stato il “gip di Mani pulite” senza rivali». Adesso è calato il sipario.

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