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Trattativa Stato-mafia, 20 anni per la verità: accuse demolite in Cassazione

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Paolo Ferrari
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«Non hanno commesso il fatto». La trattativa Stato mafia, dunque, non è mai esistita, era solo per una invenzione di magistrati e giornalisti. La Corte di Cassazione ha definitivamente assolto ieri gli ex vertici del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dell’Arma dei carabinieri, gli ufficiali Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. Secondo la procura di Palermo, la politica avrebbe dato il via, dopo le terribili stragi di mafia del biennio 1992-1994, ad una “trattativa”, tramite i carabinieri, per garantirsi l’incolumità dai feroci corleonesi di Totò Riina.

La tesi, alquanto suggestiva, iniziò a far acqua da tutte le parti dal momento in cui i politici, gli ipotetici mandanti della trattativa, ad iniziare dall’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che avevano scelto il rito abbreviato, erano stati subito assolti. Ed anche per Marcello Dell’Utri, colui che avrebbe proseguito al posto dei Ros la trattativa per il governo Berlusconi, processato invece con il rito ordinario, era arrivata l’assoluzione. Tolti allora i politici, erano rimasti sul banco degli imputati i mafiosi e i carabinieri, ai quali veniva contestato il reato di minaccia ad un corpo politico dello Stato.

 

 

 

IL “PAPELLO” DI RIINA

Riina e Bernardo Provenzano sono morti durante il processo. Assolti Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, l’ex sindaco mafioso di Palermo, inizialmente imputati e poi testimoni chiave che hanno permesso di avviare il processo trattativa. Senza di loro, infatti, i pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo non avrebbero mai potuto imbastire il dibattimento. Ciancimino, si ricorderà, venne portato per anni in palmo di mano dal fior fiore del giornalismo italiano: Marco Travaglio, Michele Santoro e Sandro Ruotolo, quest’ultimo ora nella segreteria di Elly Schlein. Durante il processo, Ciancimino è risultato però contraddittorio, calunnioso e anche fabbricatore del più grande tarocco della storia giudiziaria italiana: il “papello di Riina”, contenente le richieste dei mafiosi per far cessare le bombe. Brusca, come evidenzieranno i giudici che assolsero Mannino, si fece chiaramente suggestionare dalle notizie, dai processi in corso e non per ultimo da chi lo interrogava.

I fatti andarono in maniera molto differente. Dopo la morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992, Mori, uno degli allievi migliori del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, colui che aveva sconfitto il terrorismo, ritenne che per fermare i mafiosi i suoi ufficiali dovessero avere fonti confidenziali di maggiore qualità. Creò allora, con Subranni, il Ros, con all’interno una struttura per la cattura dei latitanti, tra cui proprio Riina. Mori si circondò di una gruppo di fedelissimi, come l’allora capitano Sergio De Caprio, alias “Ultimo”, non indagato in questo processo, e che poi metterà le manette ai polsi del capo dei capi. De Donno ebbe il compito di contattare Vito Ciancimino, attività di cui anche la Procura di Palermo era conoscenza.

Dopodiché, per cause che adesso andranno accertate, saltò tutto. Brusca ritrattò e Massimo Ciancimino, fra una ospitata in tv e l’altra, divenne un finto pentito, calunniando e fornendo prove farlocche, mentre nel contempo riciclava il tesoro di suo padre. Non solo. La Procura iniziò ad avvalersi anche di imbarazzanti pentiti che accusarono i Ros e Mori di aver fatto cose indicibili. Uno dei magistrati, l’allora procuratore Roberto Scarpinato, arrivò a dire che Mori aveva avuto nella sua vita professionale un comportamento “anfibio”.

 

 

 

MANETTARI SCONFITTI

Adesso è calato il sipario su questo tormentone che è durato oltre vent’anni e che ha visto i carabinieri del Ros, solo per aver fatto il proprio lavoro, finire sul banco degli imputati per ben tre volte: dalla mancata cattura di Bernardo Provenzano, alla cosiddetta mancata perquisizione del covo di Riina, e, appunto, alla trattativa Stato mafia. La trattativa, oltre a favorire le carriere di giornalisti e magistrati, è stato un volano per le trionfanti campagne elettorali dei grillini dal 2013 in poi. «Sono parzialmente soddisfatto, considerando che per venti anni mi hanno tenuto sotto processo», ha detto Mori ieri lasciando la Cassazione. «Ero convinto», ha aggiunto, «di non aver fatto nulla. Il mio mestiere lo conosco e so che se avessi sbagliato me ne sarei accorto». Ad assistere Mori, l’avvocato palermitano Basilio Milio. «Non ho il dono della dimenticanza, chi sbaglia deve pagare, magistrati molto onorevoli hanno restituito dignità a mio padre», il commento invece della figlia di Subranni, non presente in aula. 

 

 

 

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