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Magistratura e separazione delle carriere? Il terrore dei giudici moralizzatori

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Iuri Maria Prado
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Il fatto che le formazioni militanti del potere giudiziario reagiscano con forza, e a volte scompostamente, all’ipotesi che si dia finalmente corso a una riforma del sistema delle carriere dei magistrati, ha una spiegazione che si aggiunge a quelle di più immediata percezione (il regime conventi colare tra accusatori e giudicanti, la tendenziale compiacenza del giudizio in favore del collega che accusa, eccetera). E la spiegazione aggiuntiva, ma determinante, è questa: che la separazione delle carriere dei magistrati attenta alla funzione che essi - non tutti, ovviamente, ma una buona quota di quelli che pretendono di rappresentarli- hanno creduto di dover esercitare e di fatto hanno esercitato specie negli ultimi decenni, vale a dire una funzione di “tutela sociale” e moralizzatrice che non c’entra nulla con quella propria del magistrato.

 

 

 

Se la magistratura nel suo complesso ha (cioè usurpa) quella funzione, che spetta invece all’azione collettiva, al legislatore, alle cosiddette forze sociali, è naturale che essa non possa sopportare uno smembramento e una separazione dei propri ranghi: perché secondo quell’impostazione sbagliata ogni magistrato, a prescindere dal fatto che accusi o invece giudichi, “è” giustizia, cioè è il rappresentante fungibile di una classe che ha assunto il compito di raddrizzare le storture sociali. Disabbigliare la giustizia di quel paramento impropriamente uniforme rende chiaro che c’è chi chiede l’applicazione della legge, e cioè l’accusa, e chi la applica, e cioè il giudice. Con carriere che vanno a braccetto questo chiarimento è impossibile. 

 

 

 

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