Onestà e ricatto, il pericolo della giustizia al potere
Tra i tanti danni che la gamba tesa giudiziaria ha fatto alla cultura istituzionale italiana c’è questo: l’elevazione della fedina penale a criterio esclusivo di valutazione della benemerenza civile e politica di chi ha incarichi pubblici o ambisce ad averne.
E il danno è duplice, o per meglio dire ambivalente, nel senso che come la fedina pulita è sufficiente ad assolvere le inadeguatezze più devastanti, nella bella idea che l’ “onestà” costituisca la prima voce (il pre-requisito) di un curriculum presentabile, così quella invece maculata è sufficiente a far fuori carriere ed esperienze politiche che al contrario meriterebbero di continuare non ostante il presunto contrassegno infamante.
Alla teoria di certuni magistrati televisivi, per lo più - secondo i quali i partiti politici dovrebbero far pulizia per primi e autonomamente, senza attendere il corso della giustizia, perché magari non c’è il reato ma resta la porcata, bisognerebbe opporre una regola diversa e più avanzata, vale a dire la riserva insindacabile della classe politica di non tener conto mai e in nessun modo dei processi e nemmeno delle condanne,neppure quelle definitive, e il dovere di proteggere i propri esponenti dalla specie di giudizio di Dio che ormai è divenutala decisione giudiziaria.
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Se passa il principio - e purtroppo è passato - che un condannato deve dimettersi, vuol dire che l’intero ordinamento democratico è esposto ad eventi di turbativa, cioè l’interferenza togata, che con il sistema rappresentativo non avrebbero nulla a che fare. E a chi obiettasse che bisogna rispettare le sentenze, e che non le rispetta chi ritiene che esse non valgono nulla, bisognerebbe obiettare che rispettarle non significa adorarle. E che a fronte del pericolo che le sentenze non valgano nulla ne esiste uno anche più grande: il pericolo che valgano tutto.
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