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Divorzio, "fa volontariato? Niente soldi alla moglie": la sentenza cambia tutto

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Claudia Osmetti
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Fare volontariato e dedicarsi alla politica invece che cercare un lavoro? No: seppur di nobili intenzioni, non sono condizioni sufficienti per chiedere (e ottenere) l’assegno di mantenimento da parte dell’ex coniuge. Signore (ma anche signori, che vale pure per voi): la corte di Cassazione parla chiaro, campare sulle spalle di un amore che fu vale fino a un certo punto. Ché prima sono rose e fiori e poi la passione finisce: succede spesso. È la vita. Però non per questo il posto fisso, lo stipendio, la paga a fine mese, quella che si ottiene sudando il giusto, in ufficio o allo studio o dov’è, devono essere scansati senza colpo ferire. Eh-ma-tanto-prendo-il-mensile-dal-divorzio. Il mensile un piffero. Prima ci si rimbocca le maniche, dopo (semmai) si provano altre strade.

Genova: il mare, il porto, l’acquario, De Andrè. E una domanda, avanzata da una donna che si è separata quando aveva solo 38 anni (l’età c’entra, ci arriviamo): è già stata respinta in primo grado, ma lei non demorde, lei va avanti. Decisa.

C’è scritto, su quel foglio di carta protocollato davanti alla corte d’appello del capoluogo ligure, che vuole l’assegno di mantenimento dal suo ex marito, un militare in carriera. È che sono passati quindici anni da quando il loro “per sempre” è diventato un “ora non più” e la signora, che nel frattempo è diventata una 53enne e ha anche trovato un nuovo compagno, non ha timbrato il cartellino un giorno. Anzi, un impiego non l’ha proprio mai manco cercato: per tutto questo tempo si è barcamenata tra gli impegni di beneficenza del volontariato (santa cosa, per carità) e quelli della politica (santissima pure).

Sono proprio questi a spingere, tuttavia, la prima sezione civile della corte di Cassazione, presieduta dal giudice Francesco Antonio Genovese, a ribadire quanto già decretato nei gradi vivili precedenti, cioè a bocciare (di nuovo) il ricordo della donna: ci-dispiace-ma-no-non-funziona-così.

A giocare un ruolo è anche l’attuale compagno che non è una persona qualunque ma «un punto di riferimento per il (di lei, ndr) figlio minore, essendosi egli occupato (del ragazzino, ndr) nel corso degli anni». Ma tra le motivazioni c’è quella che dice, pressapoco, che prima di rivolgersi al “welfare” più o meno famigliare (o ex famigliare), una (o uno) deve rimboccarsi le maniche e darsi da dare. Sennò di cosa stiamo parlando? Lei, la signora genovese di questa storia, «già all’epoca successiva della separazione», scrivono i giudici, quindi quando non aveva ancora compiuto il salto degli “anta”, nel senso di quaranta, «non si era ancora attivata per trovare un’attività confacente alle sue abitudini professionali, preferendo dedicarsi, come aveva puntualmente ritenuto il giudice di primo grado, appunto, al volontariato e all’attività politica». E allora buonanotte al secchio: se le premesse sono queste, dicono i magistrati, non si può giustificare una misura come l’assegno di divorzio. Punto e a capo.

A capo perchè, nel corso del procedimento, la signora ha provato a dare una motivazione alle sue scelte di vita. Ha detto, per esempio, che prima un lavoro ce l’aveva, da contabile, solo che ha dovuto lasciarlo quando la sua famiglia si è trasferita a Genova per colpa della carriera militare dell’ex marito. Lei ha rinunciato a tutto, anche alla sua professione, pur di seguirlo. Ma si tratta di un’obiezione poco rilevante, continuano i togati liguri, «essendo lei, all’epoca, ancora molto giovane e avendo, cioè, la possibilità di ricollocarsi sul mercato del lavoro. Peraltro», concludono, «anche a voler accreditare la tesi che il marito avesse interferito con le sue scelte, risulta decisiva la circostanza che per ben quindici anni dopo la separazione non abbia cercato alcuna attività lavorativa». E qui, punto e basta. Nessun a capo.

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