Giustizia, perché va arginato il "potere morale" dei magistrati
Due fenomeni negli ultimi trent’anni hanno caratterizzato la storia del nostro Paese: la giudiziarizzazione e l’eticizzazione del conflitto politico. Si è trattato del risultato finale di un combinato disposto costituito dalla promozione della morale a elemento centrale del processo politico - così come voluto nei primi anni ’80 da un Partito comunista alla ricerca di una strategia di sopravvivenza - e dal crescente rilievo sociale assunto dalla giustizia. Una larga fetta degli italiani ha considerato per lungo tempo i magistrati (soprattutto i Pubblici Ministeri) dei veri e propri «controllori della virtù» in grado di trasformare l’Italia in un fecondo laboratorio di ortopedia morale.
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Una situazione ben descritta nel 2009 dall’ex presidente della Camera, Luciano Violante, quando fa notare che «nei provvedimenti dell’autorità giudiziaria si leggono sui protagonisti del processo che abbiano un qualche ruolo pubblico giudizi morali del tutto estranei alle competenze della giurisdizione». La mutazione avvenuta sul terreno dei rapporti fra politica e giustizia ha esposto e continua ad esporre il nostro Paese al rischio di dovere fare i conti quotidianamente con un potere autonomo e irresponsabile a dispetto di un principio fondamentale degli ordinamenti liberali secondo cui ogni potere deve incontrare un limite e chilo esercita deve essere chiamato a risponderne democraticamente. «È quanto accaduto dopo il 1993 quando molte indagini rivelatesi successivamente infondate - scrive Carlo Nordio in un breve saggio, Giustizia, pubblicato da Liberilibri - hanno determinatola caduta di governi, di ministri, di sindaci e assessori.
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Questo insindacabile arbitrio ha generato altri mostri giuridici come l’uso strumentale ed eccessivo delle intercettazioni telefoniche o l’adozione della custodia cautelare come strumento di pressione investigativa». Allo stato delle cose, sembra davvero difficile - come si ostina a fare la sinistra – continuare ad ignorare che in Italia l’attività del magistrato si collochi a una distanza di ann iluce dalla classica raffigurazione settecentesca dei giudici «come la bocca che pronunzia le parole della legge». Tal ché, al di là delle polemiche di natura corporativa accese dal sindacato dei magistrati al primo accenno di riforma della giustizia avanzata dal Guardasigilli, non è più possibile procrastinare una seria riflessione su quanto di anomalo sia avvenuto in Italia negli ultimi decenni a partire dai gravi squilibri prodotti nei rapporti fra i poteri dello Stato. Abbiamo appreso dalla storia delle dottrine politiche che affinché un sistema possa dirsi liberaldemocratico è necessario «che sia il potere esecutivo che quello legislativo rispettino le norme, ma è altresì indispensabile che esse vengano applicate da un giudice indipendente». Il sospetto che la giurisdizione si discosti dai princìpi giuridici in nome della politica può mettere a rischio l’elemento cardine della democrazia: la fiducia dei cittadini nella legalità. Osservava uno dei padri della democrazia americana, Alexander Hamilton, nel Federalist n° 78 che «la magistratura per la natura stessa delle sue funzioni sarà sempre il potere meno pericoloso per i diritti costituzionali. Essa non può dirigere la forza o la ricchezza di una società e non può prendere nessuna iniziativa». Giusto il contrario di quel che accade oggi in Italia.