Giuliano Amato, droga ed eutanasia: perché è lui il vero killer del referendum
Con tutto il rispetto: se cercate un responsabile del mancato quorum per i referendum naufragati domenica nella palude degli ignavi cittadini italiani, potete citofonare a Giuliano Amato. Sì, proprio a lui, ovvero al presidente della Corte costituzionale che al momento decisivo (febbraio scorso) ha mutilato i quesiti su cui Lega e Radicali avevano raccolto le firme necessarie: rifiutando di ammettere i due argomenti diciamo così più sexy, e cioè il fine vita e la cannabis, sono rimasti in piedi soltanto i temi relativi alla giustizia, peraltro deprivati della possibilità di pronunciarsi anche sulla responsabilità civile dei magistrati. Non che fosse senza importanza la facoltà di abrogare la legge Severino, rimodellare in senso garantista la custodia cautelare così come la separazione delle carriere o la valutazione dei togati e il loro sistema castale di elezione per il Csm. Ma si trattava appunto di questioni abbastanza specialistiche - peraltro compilate sulla scheda in un modo per lo meno caliginoso - e decisamente poco attraenti in vista di una grande mobilitazione di energie civili che nei fatti è mancata. Complice forse la guerra russo-ucraina, il dibattito pubblico è rimasto giacente in un cono d'ombra al limite della clandestinità e ha riguardato più che altro gli addetti ai lavori. Politici, magistrati, i pochi giornalisti ancora impermeabili alla pigrizia dilagante nel mestiere, i pochissimi giovani coltivati e appassionati alla battaglia delle idee.
NESSUN DIBATTITO
Di qui la prima domanda spontanea: la coltre letargica cumulatasi sui referendum è stata o no sparsa anzitutto dal numero uno della Consulta? Tecnicamente sì. E proprio dietro la nebbia della tecnicalità si è riparato lui, con la consueta alterigia, per giustificare il gran rifiuto dei quesiti più divisivi e controversi che avrebbero animato la contesa fungendo da catalizzatore elettorale. Esiste già una cospicua letteratura che contraddice le tesi di Amato secondo il quale, per come erano stati formulati, il referendum sulla cannabis avrebbe implicitamente contemplato anche "altre sostanze stupefacenti come papavero e coca, le cosiddette droghe pesanti, e questo era sufficiente a farci violare obblighi internazionali"; mentre quello sull'eutanasia avrebbe acquisito il profilo di un giudizio "sull'omicidio del consenziente", aprendo un inedito spazio "all'impunità penale di chiunque uccide qualcun altro con il consenso, sia che soffra sia che non soffra". Nella testa del cosiddetto Dottor Sottile, abita ufficialmente la convinzione che di certe cose debba occuparsi soltanto il Parlamento, a dispetto delle ponderose aspettative con le quali numerosissimi cittadini si sono impegnati a firmare (e a raccogliere firme) dall'estate scorsa in poi senza porsi troppe domande sull'inedito fronte radical-sovranista che si faceva promotore dell'iniziativa. Risultato: per usare una metafora non esente da venature grossolane, è un po' come promettere a un maschio eterosessuale una cena con Charlize Theron e poi fargli trovare al suo posto l'autore barbuto e canuto di questo articolo. Veniamo dunque alla seconda domanda: perché è andata così? I retropensieri più svariati si accumulano come nembi sull'autorevole testa del professore emerito dalla fungibilità universale che ha insegnato Diritto costituzionale e ha presieduto l'Antitrust, ma ha pure guidato l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, la Scuola Superiore Sant' Anna di Pisa e la Consulta scientifica del Cortile dei Gentili creato dal Pontificio Consiglio della cultura guidato da Giancarlo Ravasi (per capirci: il cardinale in odore di santità mondana che monopolizza le pagine religiose del Domenicale editato dal Sole 24 Ore). E qui, a proposito d'interferenze clericali, il sospetto principale dei liberi pensatori è che Amato non abbia voluto addolorare il blocco di potere vaticano e che il luogo del misfatto risieda in quella zona grigia nella quale l'abito talare si s' incontra coi grembiulini degli amici del giaguaro... Quegli stessi ambienti che il leader socialista Bettino Craxi s' inimicò nel 1984 con la riforma laicizzante dei Patti lateranensi e che il suo insigne, infedele ma più scaltro discepolo avrebbe invece preferito vellicare da par suo. Chissà. Ma c'è ovviamente dell'altro.
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IL MURO
Giuliano Amato è a tutti gli effetti una "riserva della Repubblica": la condizione esistenziale che si addice a un onusto e vetusto e sperabilmente (per lui) neutrale protagonista delle istituzioni sopravvissute alla tempesta di Mani Pulite, il quale sin dalla fine degli anni Novanta è divenuto un candidato naturale per il Colle. Già quattro volte ministro e per due volte inquilino di Palazzo Chigi, hanno provato invano a sospingerlo oltre il soglio del Quirinale sia Massimo D'Alema sia Silvio Berlusconi scontrandosi con il muro eretto da Matteo Renzi nel 2015 (Mattarella I), ma il suo nome è rimasto in lizza fino al gennaio scorso (Mattarella bis Oggi il presidente della Consulta ha 84 anni e sembra pacificato con l'idea di accontentarsi del suo comunque formidabile cursus honorum. Sicché, di là da ogni maldicenza più o meno verosimile, resta in piedi il dubbio che abbia un fondo di verità la leggenda secondo la quale Amato è il titolare d'un metodo di lettura assai speciale, basato su uno sguardo diagonale e rapidissimo, tale da consentirgli d'ingurgitare libri su libri in tempi record. Che vi sia perciò soltanto un effetto collaterale di tale abitudine, insomma una svista, alla base della bocciatura dei quesiti sulla cannabis e sull'eutanasia? Sarebbe un singolare giuoco del Fato per colui che nel 1992, nottetempo, ci vide benissimo allorché si trattò di operare il famigerato prelievo forzoso del 6 per mille sui nostri conti correnti per rimpannucciare le finanze della Repubblica italiana che non è ancora riuscito a presiedere. Sempre con rispetto parlando.
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