Piercamillo Davigo, "si ricordi che lei è un imputato": l'ex pm detestato pure dai colleghi?
Occorre resistere alla tentazione di scrivere del processo a Piercamillo Davigo con un tono da «ecco, tocca a te», «ora sai che cosa si prova», eccetera: non sono queste - l'essere interrogato da imputato o da testimone - le cose che non sapeva e che gli auguriamo di non sapere mai, perché sono cose che riguardavano chi al processo spesso neppure ci arrivava, o veniva maltrattato senza un pubblico durante un interrogatorio, o marciva in galera da innocente. Non c'è nessuna nemesi, perciò. Per ora, almeno. Davigo non ha un Davigo che lo fronteggia: ha il giudice Roberto Spanò, il quale forse fu il più deciso nel respingere le richieste di rinvio a giudizio che dal 1996 al 1999 riguardarono Antonio Di Pietro a Brescia, e più in generale, l'immagine di Mani Pulite. Fu roba che passò alla storia della giurisprudenza: alcune particolari udienze preliminari prassi che talvolta duravano pochi minuti, e che al più verificavano i crismi formali per fare un normale processo - durarono settimane o mesi e anticiparono patenti di innocenza o di colpevolezza riservate di regola ai giudici veri e propri, come ora è Spanò. Furono sentenze che andarono contro ogni linea-guida del legislatore e contro i pronunciamenti, sul tema, della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione anche a sezioni unite. Insomma, sulla ferrea volontà di salvare l'immagine dell'inchiesta e i suoi simboli non vi furono dubbi. Ai tempi era Di Pietro. Oggi è Davigo, e potrebbero essere cambiate tante cose: tra queste, sicuramente, però, non c'è il piglio arrogante di Davigo: è rimasto quello.
SÌ ALLE TELECAMERE
Qualche sua frase di ieri: «Ho fatto il mio dovere nell'unica maniera in cui andava fatto, assolvetemi», «ho chiesto la pubblicità dell'udienza perché ritengo che l'opinione pubblica voglia sapere cosa è successo», «Storari mi informa di una situazione che io ritengo legittima, io non contesto che Storari mi abbia consegnato una chiavetta, è vero e l'ho detto», «non bisogna scappare dal giudice quando si è innocenti e per questo non faccio eccezioni di competenza territoriali». Insomma, il giudice sembrava ancora lui, seduto in prima fila: ho fatto la cosa giusta nel modo migliore, sono io che ho chiesto le porte aperte alle udienze, e comunque ho già detto tutto, sono innocente, e sono qui solo perché non ho fatto eccezioni di competenza territoriale.
Un'ostentazione di controllo inversa rispetto alla vertigine di chi rimane impigliato nell'ingranaggio giudiziario, ed entra in dinamiche che non può controllare. Però ieri, Davigo, a un certo punto è parso eccessivo persino per il giudice Roberto Spanò: «Ho diritto di sapere perché condotte identiche mi vengono contestate come rivelazione di segreti d'ufficio e altre no» ha detto a un certo punto Davigo (come se la stessa domanda non avesse mai riguardato la sua attività da pm) prima di chiedersi anche «perché è lecito se lo dico al presidente Curzio ed è illecito se lo dico al pm Ermini?». Qui Spanò ha preso la parola e gli fatto un richiamo, perché era davvero era troppo: «So che è difficile sfilarsi la toga, ma la invito a calarsi nella parte dell'imputato». Ah già, la toga: aveva dimenticato di toglierla. Come disse Oscar Luigi Scalfaro: la toga è sull'anima.
«La vicenda è molto più semplice di quel che sembra... Storari mi rappresenta una situazione che lui ritiene illegittima e io che condivido essere illegittima», ha detto ancora Davigo, ex consigliere del Csm che ieri ha reso parziali dichiarazioni spontanee nel processo in cui è imputato. Poi, fuori dall'aula, coi giornalisti, si è soltanto ripetuto: «Vorrei sapere perché comportamenti identici a volte vengono considerati reati e altri no». Capito. Dunque facciamo ordine. Ieri c'è stata la prima udienza del processo con imputato Davigo per l'accusa di rivelazione di segreto per aver diffuso, in qualità di componente del Consiglio superiore della magistratura, in modo «informale e senza alcuna ragione ufficiale», alcuni verbali segreti, «violando i doveri» legati alle sue funzioni e «abusando delle sue qualità». Il giudice Spanò ha ammesso le telecamere a cui si erano opposti solo i pm, Donato Greco e Francesco Milanesi. I verbali in questione sono quelli che l'ex consulente dell'Eni Piero Amara, tra la fine del 2019 e l'inizio del 2020, aveva reso ai pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari.
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CARTE E TESTIMONI
In seguito, Storari ha ritenuto che Laura Pedio e l'allora procuratore capo di Milano Francesco Greco avrebbero rallentato le indagini, ragione per cui lo stesso Storari nell'aprile 2020 consegnò al consigliere del Csm Davigo una copia (trascritta in word) di questi verbali. Davigo ha sempre detto di aver avuto quelle carte in modo legittimo in quando membro del Csm, a cui il segreto non sarebbe opponibile. Per il pm Laura Pedio, la procura di Brescia ha chiesto l'archiviazione. L'ex capo Francesco Greco, oggi in pensione come Davigo, è già stato prosciolto. Se ne riparlerà il 24 maggio, quando verrà ascoltato il pm Paolo Storari (dapprima archiviato anche lui, ma la procura si è appellata) e poi il 28 giugno quando invece la parola passerà al vicepresidente del Csm David Ermini più alcuni consiglieri come Ilaria Pepe, Giuseppe Marra e Giuseppe Cascini. Tra i testimoni teoricamente ammessi - in realtà verranno vagliati di volta in volta - ci potrebbero essere il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, e poi Nino Di Matteo, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna, oltre al presidente della commissione antimafia Nicola Morra e all'ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contrafatto. Perché diventi interessante, al processo servirà un po' di tempo.