Raoul Gardini, gli insulti alla vedova a di un morto suicida: che roba è stata Mani Pulite
Il 23 luglio i funerali dell'ex presidente dell'Eni Gabriele Cagliari sfilavano mentre una la folla di scalmanati gridava «ladri», «vergogna» e «nessuna pietà» alla vedova Bruna Cagliari e i suoi figli Silvano e Stefano, che stavano raggiungendo il feretro. Il sindaco di Milano Marco Formentini aveva rifiutato di partecipare con la benedizione di Umberto Bossi, che quel giorno però disse una frase profetica su Bettino Craxi: «I re, quando scoppiano le rivoluzioni, non sono mai destinati alla galera. O salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l'esilio». Al viaggio definitivo per Hammamet mancava ancora un anno. Alle 9.40 le esequie erano ancora in corso quando l'agenzia Ansa batteva una notizia: «Gardini si è suicidato». La ricostruzione è ormai definitiva ma apre squarci inquietanti. Gardini si sparò con la Ppk calibro 7,65 fuori produzione dopo aver letto i giornali che avevano accuse come queste: "Tangenti, Garofano accusa Gardini", "Ferruzzi allo sbando, ora tremano i big". A pagina quattro: "Cinque eccellenti nel mirino di Mani pulite", e c'era la sua foto. I giornali traevano la notizia da alcune anticipazioni del settimanale Il Mondo che pubblicava un articolo scritto da una giornalista sotto pseudonimo che in realtà era Renata Fontanelli del manifesto. I verbali li aveva avuti solo lei dal carabiniere Felice Corticchia, anche perché il pool dei giornalisti si stava un po' sfaldando. Quando lo trovarono, affianco aveva i giornali e un biglietto con scritti i nomi della moglie e dei figli, più un «grazie». Il proiettile gli aveva trapassato il cranio, ma era ancora vivo. Morì alle 9.07.
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PUNTI DI VISTA
Antonio Di Pietro scese dall'auto tra gli applausi mentre poco più in là c'era il funerale di Cagliari. Racconterà sempre che una mancanza di tempestività nell'arrestare Gardini fu uno dei grandi errori della sua vita. Lo dirà, però, cambiando sempre versione. "Il mio errore su Raul Gardini. Non lo arrestai per una promessa": questo per esempio fu il titolo di un'intervista che rilasciò ad Aldo Cazzullo del Corriere del 21 luglio 2013, e già qui i fatti appaiono distorti: sia perché Gardini figurava già formalmente arrestato (l'ordine era firmato da tempo, come ben sapevano il pm Francesco Greco e il gip Italo Ghitti) e sia perché era stato lo stesso Di Pietro, in precedenza, a spiegare che era stato semplicemente un problema di orario: varie versioni si accavallano in "Intervista su Tangentopoli" (Laterza, 2000, con Giovanni Valentini) ene "Il guastafeste" (Ponte alle Grazie, 2008, con Gianni Barbacetto) e in "Politici" (Ponte alle Grazie, 2012, con Morena Zapparoli Funari) più qualche intervista che prefigura, direbbe Di Pietro, una reiterazione del reato di omissione. Di Pietro disse ad Aldo Cazzullo, nella citata intervista: «Il 22 luglio, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso, e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Domanda: ma voleva arrestarlo o no? Risposta: «Con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità». Il quadro prefigura un Di Pietro quasi umano che adottava le manette come remota ipotesi. Questa versione, data anche in passato, venne sintetizzata verso la fine dell'intervista: «Avrei dovuto ordinare di arrestarlo. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data». Sul valore della parola di Di Pietro i testi a discarico riempirebbero uno stadio, ma vediamo come andò davvero. Già nel libro scritto con Giovanni Valentini cambia tutto: «C'erano perquisizioni da eseguire, si rischiava di cominciare la sera e di finire a notte inoltrata, per cui decisi di rinviare tutto all'indomani». Rinviare che cosa? L'arresto già firmato: la parola data non c'entrava niente.
RICHIESTA RESPINTA
Ma per comprendere lo stato d'animo di Gardini (di una persona, ossia, poi giunta a suicidarsi) occorre tornare alla prima estate 1993, quando il finanziere aveva ragione di pensare che avrebbe potuto fare come Cesare Romiti e Carlo De Benedetti e Romano Prodi: accordarsi con la Procura e presentare un decoroso memoriale al momento giusto, possibilmente non gravemente omissivo come si rivelò quello di Cesare Romiti. Ma per Gardini c'erano segnali di presagio diverso: venne a sapere che il pm Francesco Greco (non Di Pietro: Francesco Greco) aveva chiesto un primo mandato d'arresto contro di lui, e lui, Gardini, quasi non ci credette: il gip Antonio Pisapia, in ogni caso, respinse la richiesta. Greco tornò tuttavia a lavorarci, sinché un altro gip, Italo Ghitti, il 16 luglio accolse il mandato di cattura, che però rimase sospeso come una spada di Damocle. Il 16 luglio 1993, dunque, Gardini venne a sapere che il mandato d'arresto contro di lui era già stato firmato: e a quel punto, coi suoi due avvocati, predispose qualcosa di più di un decoroso memorialetto: si dichiarò disponibile a parlare di tutta la vicenda Enimont e anche di soldi ai partiti e di paradisi fiscali. Chiese un interrogatorio spontaneo, come altri avevano ottenuto, e mandò l'altro avvocato, Dario De Luca, in avanscoperta. Con un lettera: «Con la presente desidero portare a Loro conoscenza la mia più ampia e illimitata disponibilità a ragguagliare le S.V. Ill.me su tutti i fatti che saranno ritenuti per Loro di interesse».
Il riferimento era alle mazzette Enimont e a «dazioni di denaro a partiti politici e, più specificatamente, a personalità politiche in occasione di vicende attinenti la joint-venture Enimont ein altre occasioni. Si leggeva che avrebbe spiegato il sistema che consentiva alla Montedison di finanziare le attività con sedi nei paradisi fiscali di mezzo mondo e che avevano alimentato gli ingenti fondi neri della la contabilità parallela del gruppo Ferruzzi. Non era poco, anzi. Ma quando l'avvocato De Luca tornò con le pive nel sacco, il segnale si fece preciso: non volevano interrogarlo, volevano espressamente arrestarlo. O meglio: volevano interrogarlo, arrestarlo e poi reinterrogarlo da galeotto. Vent' anni dopo, nell'intervista al Corriere, Di Pietro la girò così: «Io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo». Sì, ma per arrestarlo: tanto che è sempre il contraddittorio Di Pietro, nel libro con Valentini, a precisare che «Gardini non viene sorpreso dal provvedimento restrittivo, i suoi legali lo informano già dalla sera prima». Gardini, in sintesi, fu lasciato "in cottura" per un tempo insopportabile con un mandato d'arresto sopra il cranio; il 20 luglio, di passaggio, apprese che il manager socialista Gabriele Cagliari si era suicidato nello stesso luogo in cui Di Pietro lo voleva spedire, e questo con un mandato d'arresto che intanto era sempre lì, sospeso. Sinché i legali confermarono a Gardini che il mandato d'arresto era firmato, e che la galera doveva farsela.
LETTURE FATALI
Dissero che avevano ottenuto di rimandare l'arresto al giorno dopo, ma, stando a Di Pietro, fu solo per evitare che le perquisizioni proseguissero sino a notte: cosìcchè, con le sue gambe o col cellulare della polizia, Gardini l'indomani sarebbe andato in procura e poi in galera. Ma non resse la tensione. Il mattino dopo lesse i giornali con le confessioni di Garofano pubblicate prima ancora che lui potesse raccontare la sua versione, vide la prova della verità: non ci sarebbe stato un margine di trattativa, volevano arrestarlo e basta, non c'era una disponibilità che lui potesse offrire senza l'umiliazione delle manette. Si uccise. La reazione a caldo di Di Pietro (il Corriere la riporta) fu questa: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino». Aveva ragione: qualcuno si ammazzava prima ancora di finirci. E comunque, per farsi perdonare, Di Pietro, nello stesso giorno, il 23 luglio, mandò ad arrestare parenti e amici di Raul Gardini, tra i quali Carlo Sama e Sergio Cusani. Il gip Italo Ghitti fu piulgche d'accordo: «Eccezionalmente», dirà, «su quei provvedimenti ho indicato l'ora, Le 9 del mattino. Pochi minuti dopo il dramma. Per testimoniare che, nonostante il dolore, la giustizia deve andare avanti».
Più che la giustizia, gli arresti. Il lettore potrà farsi l'idea che vuole circa la perdurante excusatio non petita di Antonio Di Pietro. Ma nulla esclude che Gardini quest' ultimo potesse anche temere, una volta incarcerato, che dalle fogne del Paese potesse tracimare di tutto. E qui si torna al dossier mafia -appalti che probabilmente fece saltare in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si ricordano, succintamente, le parole del pentito Antonino Giuffrè: «Una indagine dei Carabinieri mise a nudo il legame strettissimo tra Cosa Nostra, il mondo imprenditoriale e quello politico per la spartizione delle commesse. Falcone e Borsellino capirono subito l'importanza di questo legame... Il "tavolino" controllato da Angelo Siino sedevano personaggi molto importanti... L'ingegnere Bini, il tecnico che si occupava di calcestruzzi per conto della Ferruzzi, divenne il punto di collegamento con i mafiosi e con i politici». Si ricorda pure quanto disse a Paolo Borsellino, nei suoi ultimi giorni, il pentito Leonardo Messina: «Totò Riina i suoi soldi li tiene nella Calcestruzzi». Angelo Siino, il "ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra", a proposito del suicidio di Gardini, sarà nondimeno esplicito: «Credo che abbia avuto paura per le pressioni del gruppo mafioso sul carro del quale era stato costretto a salire, quello dei fratelli Nino e Salvatore Buscemi, legatissimi a Totò Riina... Secondo me Gardini ha capito che non era più in grado di sganciarsi dall'orbita mafiosa in cui era entrato». Mani pulite non è storia vecchia. È storia nuova, tutta da riscrivere. 5/continua.