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Mani Pulite, Filippo Facci e il metodo-Di Pietro: "Perché i giudici lasciavano la porta aperta"

Filippo Facci
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Chi le passava le notizie ai cronisti, in definitiva? Cominciamo col parlare di Italo Ghitti, che è sempre stato ipocrita come tutti i veri cattolici: sin in dal primo interrogatorio di Mario Chiesa era comparso con la sua barbetta nel ruolo di gip (giudice delle indagini preliminari) inteso come malriuscito "giudice terzo", quello che secondo il Codice doveva stare in equidistanza tra accusa e difesa. Ex contrattista di diritto ecclesiastico, per i cronisti diverrà "nano ghiacciato", benchè bramoso della sua porzioncina di celebrità. Fu lui ad autorizzare gli arresti chiesti dai pm, e le sue rarissime opposizioni furono rondini che non fecero mai primavera: non convaliderà le manette di quattro consiglieri dell'Ipab (un istituto di beneficienza) e poi del manager della "Torno Costruzioni" Angelo Simontacchi, del direttore della Siemens Italia Jurgen Ferlinge, del socialista Loris Zaffra, del cassiere Pds Marcello Stefanini. Sono solo esempi, ma la mancanza di terzietà di un intero Paese, oltre ai ricorsi dei pm, lo ricacciarono sempre in un ruolo comprimario, da vidimatore delle carte dell'accusa. Ghitti è stato il gip "unico" di Mani pulite, un'anomalia assoluta sulla quale di recente si è espresso Guido Salvini, giudice istruttore delle indagini su Piazza Fontana (e caso Parmalat e Abu Omar), che non aderì mai a nessuna corrente della magistratura e passò quegli anni proprio all'ufficio gip: «Un unico gip accentrò indebitamente tutti filoni dell'indagine... un meccanismo da cui dipendeva il funzionamento di quell'inchiesta sistemica... fu comodo non doversi confrontare con una varietà di posizioni che si potevano incontrare all'interno dell'ufficio gip», ha detto Salvini, «che era formato da una ventina di magistrati... Così il Pool escogitò un trucco, costituendo un fascicolo che in realtà era un registro che riguardava centinaia di indagati (poi migliaia, con circa 9.000 richieste di arresto, ndr) su vicende completamente diverse: il numero era sempre lo stesso, il 8655/92, estensibile a piacere anche a vicende per cui la competenza territoriale di Milano non esisteva».

 

 

 

PRINCÌPI SOVVERTITI

Insomma, i princìpi dell'Ufficio furono sovvertiti radicalmente, spiega Salvini: «Ci fu un episodio che mi riguardò. Nel maggio 1993 un filone arrivò a me per sbaglio... portava scritto sulla copertina quel famoso numero 8655/92... prima ancora che potessi decidere su alcune richieste del Pool, il fascicolo mi fu sottratto e passò al gip Ghitti, evitando così che io o qualsiasi altro gip interferisse nella macchina di Mani pulite». Parentesi: la testimonianza dell'ex gip Salvini non attesta solo che Mani pulite rinunciò alla terzietà del giudice, ma permette di retrodatare la decisione di direzionarsi verso una "rivoluzione" che i magistrati di Mani pulite hanno sempre teso ad ancorare a uno strabordante consenso popolare che a quel tempo ancora mancava: quando Ghitti divenne l'anomalo gip unico, a ben vedere, mancava ancora tempo alle elezioni "terremoto" del 5 aprile 1992, che pure registrarono una sostanziale tenuta del partiti; mentre era prossimo l'affiancamento all'inaffidabile Di Pietro di magistrati come Gherardo Colombo e poi Piercamillo Davigo. Mani pulite cominciò così a correre da sola, con le sue anomalie e progressive forzature delle regole, in attesa del plebiscitario appoggio popolare (da maggio e soprattutto dall'autunno) che le permetterà addirittura di volare. Ancora prima delle elezioni del 1992, il gip Ghitti disse: «Il nostro obiettivo è colpire un sistema, non le singole persone». Bene, ma perché l'abbiamo definito ipocrita? La risposta sta in un altro esempio a margine del mancato arresto di Marcello Dell'Utri: il Tg5 anticipò la notizia (dopo discussione tra Andrea Pamparana ed Enrico Mentana) e il gip Ghitti disse: «Ricordo anche l'ora... le 15.57 dell'8 marzo 1994... Mi resi conto che non riponevo più fiducia nella correttezza di alcuni pm, ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pubblici ministeri». Ah, lo capì allora. Gherardo Colombo spedì in sala stampa addirittura un finanziere: «Allora, chi è stato? Chi vi passa le notizie?». Un cronista rise: «Ma dite sul serio?». Ma Ghitti era ipocrita anche per un'altra ragione, e qui segue un racconto personale. Ricordo bene: salimmo al settimo piano e la porta del gip era aperta, complici i buoni rapporti con due dei cronisti (uno era il mitico Frank Cimini) e l'apparente ordinarietà di quello che stavamo facendo. Era sera, era buio. Entrammo nella stanza, Ghitti era a capo chino e stava scrivendo qualcosa con la penna. Non alzò il capo, non salutò, nessuno salutò lui. Noi non esistevamo. Sulla scrivania, ordinatissimi e in bella vista, erano appoggiati dei provvedimenti d'arresto che aveva appena firmato ed altri che probabilmente stava per firmare. Nessuno disse una parola, nessuno toccò niente, tutti videro tutto. Pochi minuti dopo lasciammo la stanza con tutte le notizie o conferme che ci servivano. E lui, Ghitti, ufficialmente non aveva mostrato niente a nessuno, non aveva parlato con nessuno. Funzionava anche così. Ghitti peraltro sapeva essere spietato: dopo aver firmato l'ordine d'arresto per Raul Gardini il 16 luglio 1993 (che però non gli venne consegnato per settimane, tenendolo in cottura e contribuendo al suo suicidio), ecco che subito dopo che il finanziere si era sparato Di Pietro mandò ad arrestare vari parenti e amici di Gardini, tra i quali Carlo Sama e Sergio Cusani; e il gip Italo Ghitti disse: «Eccezionalmente su quei provvedimenti ho indicato l'ora. Le 9 del mattino. Pochi minuti dopo il dramma. Per testimoniare che, nonostante il dolore, la giustizia deve andare avanti». Più che la giustizia, gli arresti.

IL BAGNO ADIACENTE

Bene, ma allora: chi passava le notizie ai giornalisti? La risposta è: tutti. Magistrati, avvocati, segretarie dei magistrati, poliziotti, carabinieri, le squadre investigative dei pubblici ministeri, cancellieri, gente che coi giornalisti aveva anche tresche sessuali o voleva averne. Dall'aprile 1992 all'estate 1993 furono condivise in pool, poi non più. Poi naturalmente facevano qualcosa anche i cronisti, ce n'erano di bravi e non mancarono risvolti anche divertenti. Sino a un certo periodo fu sufficiente piazzarsi nel bagno adiacente alla stanza del gip e aspettare che entrassero i pubblici ministeri: da lì si distingueva perfettamente ogni parola, non c'era neppure bisogno di appoggiare l'orecchio al muro. Colombo non parlava quasi mai. Di Pietro e Davigo raccontavano barzellette soprattutto sui socialisti. Da un certo punto in poi però i magistrati se ne accorsero: uno entrò in bagno e trovò i cronisti come colpiti da dissenteria di massa. Poi c'era uno come Luca Fazzo, detto Panzer, che placcarlo era dura: il 30 marzo 1992, quando Mario Chiesa venne interrogato al gabbiotto (una costruzione prefabbricata infelicemente piazzata nel cortile del Palazzaccio), c'era una finestrella aperta, e per ascoltare bene Fazzo si appese a una grondaia. A semplificare tutto c'era che il Pool di Milano abolì di fatto il segreto istruttorio e anche in questo si sostituì al legislatore: che cosa fosse il segreto istruttorio presero a raccontarselo da soli, anche se il Codice prevedeva il contrario rispetto a certi comporti. Il 19 dicembre 1992 ci fu un convegno organizzato dal Gruppo di Fiesole (giornalisti di sinistra) eil neo giurista Piercamillo Davigo la mise così: «Il segreto istruttorio è posto a tutela dell'attività investigativa, non dell'onorabilità dell'inquisito... Se mi dicono "sei un ladro" non posso difendermi dicendo "è un segreto", ma dimostrando che non è vero». Chiamasi inversione dell'onere della prova. Più ideologicamente, al convegno, disse il neo giurista Gherardo Colombo: «È vero che il diritto alla riservatezza va tutelato, ma quando il progredire di tutti confligge con l'interesse particolare, io penso che il più delle volte vada sacrificato il secondo al primo». Io penso. Anche il neo giurista Francesco Saverio Borrelli, in più sedi, aveva spiegato che il segreto in pratica non esisteva più. Talché il noto avvocato Corso Bovio, legale dell'Ordine dei giornalisti lombardi, rispose: «Per anni, come avvocato dei giornalisti, ho sostenuto decine di cause per violazione del segreto istruttorio promosse proprio dalla procura milanese. Il nuovo indirizzo di Borrelli mi auguro che valga in ogni circostanza, e non solo nell'inchiesta sulle tangenti». Il procuratore neo giurista Marcello Maddalena, da Torino, sostenne invece che il diritto alla riservatezza dell'indagato «comunque è secondario rispetto all'esigenza di scoprire la verità». Insomma, la magistratura cancellò letteralmente il segreto istruttorio perché le andava bene così, e la loro regola divenne la regola. Ai giornalisti piacque e piace a tutt' oggi.

 

 

 

L'AUTORE DEL CODICE

Chi il Codice l'aveva scritto, però, la pensava al contrario. Nel 1992 provai a intervistare Giandomenico Pisapia, co-relatore del Nuovo Codice chiamato "Pisapia Vassalli". Mi disse così: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto serve a tutelare sia le indagini sia l'indagato, che naturalmente teme che la divulgazione di notizie possa pregiudicare un'immagine che, una volta guastata, non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione». Sempre nel 1992, il vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, diede conferma: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l'avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio». Fantascienza. Se interessa, era d'accordo anche un certo Giovanni Falcone, che lo disse davanti al Csm: «L'avviso di garanzia non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzata nell'interesse dell'indiziato». Archeo-fantascienza. 

 

 

 

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