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Angelo Burzi, il silenzio sul suo suicidio lo conferma: la giustizia è caduta in un abisso di tradimento

Angelo Burzi

Iuri Maria Prado
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Ci siamo già occupati del caso specifico: il caso del politico piemontese che si è ammazzato perché non sopportava l’ulteriore soggezione a un processo di cui, togliendosi la vita, denunciava l’ingiustizia; il caso del procuratore torinese che vagheggiava ipotesi di “vilipendio dell’ordine giudiziario” nel registrare gli sparuti fenomeni di indignazione civile davanti a una giustizia di cui si protestava il carattere politicamente orientato. Vale la pena di tornarci, almeno per qualche parola sul silenzio che a proposito di quel caso è provenuto dall’ambiente giudiziario.

 

 

L’assenza di qualsiasi reazione all’iniziativa di un magistrato che replica al pubblico sconcerto per la lettera con cui un detenuto in attesa di giudizio, e dunque per definizione da ritenersi innocente, annuncia il proprio suicidio, dimostra in modo repellente in quale abisso di tradimento la comunità giudiziaria coltivi la propria reputazione. È il tradimento di un principio che dovrebbe comandare ogni provvedimento, ogni gesto, perfino ogni pensiero di chi è incaricato di giudicare i propri simili e di interferire con violenza legittima, ma pur sempre violenza, nel corso della loro vita. Se quel principio fosse osservato anche solo tiepidamente, anziché platealmente disatteso, allora i magistrati - e non quelli che sbagliano, ma tutti - dovrebbero chiedere perdono a Dio, se ci credessero, e all’umanità, se sapessero che cos’è, per essersi volontariamente posti nella posizione di fare stato sulla vita altrui.

 

 

Dovrebbero fustigare le proprie decisioni, le proprie parole, i propri intendimenti, con questo ammonimento: essi non sono nel giusto solo perché hanno il potere di giudicare, e anzi questo potere costituisce in sé una specie di ingiustizia, per quanto necessaria. Perché non è una giustizia superiore ciò che ha conferito loro il potere di fare giustizia: è una delega che viene da uomini come loro, una delega da assumere in modo sommesso, timorato e con profondo senso di colpa. Una delega da ricevere ed esercitare con la schiena piegata dalla responsabilità e dal peso di quell’ammonimento. Altro che stare impettiti e impassibili davanti al dolore di chi muore di giustizia. Altro che fare silenzio quando un proprio collega risponde piccato agli argomenti della lettera di un morto, per una volta non lasciati cadere ma impugnati dall’opinione pubblica che li fa propri. Ed è un silenzio tanto più detestabile se paragonato al vociferare frequente quando si tratta di riforme sgradite, quando non di emolumenti e di ferie.

 

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