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Piercamillo Davigo? La segretaria, il giornale e Travaglio: ecco come si difende l'inquisito, cosa proprio non torna

Filippo Facci
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Ci scappa il refuso, perché il nuovissimo libro di Piercamillo Davigo, in quarta di copertina, «traccia un bilancio decisamente amaro» e a noi veniva da scrivere Amara. Forse aveva previsto tutto, Davigo, anzi è sicuramente così: prima che il volume andasse in stampa, infatti, ha fatto in tempo a inserire un «post scriptum» che riassume la sua posizione difensiva sulla faccenda Amara, o sull'amara faccenda: quella per cui la procura di Brescia, ieri, ha chiesto il suo rinvio a giudizio per «rivelazione del segreto d'ufficio» sui verbali appunto di Amara, Piero Amara. In un colpo solo, insomma, abbiamo il testamento spirituale di Davigo, un bilancio memorialistico della sua carriera da magistrato (con allegati in fondo a volume) e la sua arringa difensiva spiegata facile. La summa finale è comunque amara, ma cercheremo di scacciare l'espressione dalla nostra testa. Anche perché va tutto bene: «Se pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull'inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia e attendo il corso del procedimento, certo che emergerà l'infondatezza dell'accusa»: pagina 198. Davigo, ergo, non avrà certo cambiato opinione per via di una banale richiesta di rinvio a giudizio: sarà comunque il gup a decidere se andrà a processo, e i gup bresciani, ricordiamo, sono quelli che non mandarono mai a giudizio Di Pietro. Comunque ci sono un paio di osservazioni da fare.

 

 

 

 

 



L'ASSISTENTE DI MEZZO - La prima è che alla fine c'è sempre una segretaria di mezzo. «Secondo notizie di stampa», pagina 197, «la mia ex assistente di segreteria sarebbe stata l'autrice della divulgazione» appunto dei verbali di Amara al Fatto Quotidiano, giornale diretto dal suo amico Marco Travaglio e sul quale scrive abitualmente - sul giornale, non su Travaglio - tanto che Davigo si dice sorpreso che gli inquirenti non gli abbiano contestato di essere semmai il mandante della segretaria, non tanto il fatto di aver violato il segreto assieme al pm Paolo Storari e poi di averlo raccontato a mezzo mondo togato. Ma non c'è problema, perché, come detto, lui non ha perduto fiducia nella giustizia: «Non potevo istigare Storari perché, prima che me ne parlasse, ignoravo l'intera vicenda». Cioè: non poteva istigare a violare un segreto istruttorio - questo capiamo - perché non sapeva che cosa rivelasse. In pratica non poteva conoscere un segreto prima di conoscerlo. Se l'avesse conosciuto, forse, non avrebbe istigato Storari a rivelarglielo. In genere si fa una domanda proprio perché non si conosce la risposta, ma forse stiamo interpretando male. In ogni caso Davigo si è sentito «autorizzato a ricevere copia» dei verbali in quanto «componente del Csm» e ha inguaiato così anche Storari, rafforzandone «il proposito criminoso». Da lì la diffusione disinvolta, abusando del suo ruolo e delle sue funzioni - secondo le accuse- nel parlarne al procuratore generale della Cassazione, al vicepresidente del Csm (che quei verbali scelse di distruggerli) e ad altre tre consiglieri del Csm oltre al presidente grillino dell'Antimafia, chissà perché. Poi ecco, ci sono anche le sue segretarie Giulia Befera e Marcella Contrafatto, quest' ultima indagata per calunnia a Roma. Sempre una segretaria di mezzo, dicevamo: il 21 novembre 1994 l'allora premier Silvio Berlusconi stava per ricevere il famoso «invito a comparire» e l'iscrizione nel registro delle notizie di reato avvenne dal computer di Davigo, accessibile a pochi tra i quali la sua bionda segretaria Maddalena Capalbi. Lei in seguito fu calunniata da chi raccontò - condannato - che era stata proprio lei a passare la notizia a un giornalista del Corriere che aveva in simpatia. Insomma, la violazione del segreto sembra un mondo che gira sempre attorno a una cosa DOPO sola, la figura della segretaria. Davigo comunque ha sempre avuto un rapporto personale col segreto istruttorio: in pratica, segretazioni a parte, sin dagli esordi di Mani pulite decise che non esisteva più, e tutti gli andarono dietro. Il professor Giandomenico Pisapia, padre del Nuovo Codice, aveva detto che «il segreto delle indagini c'è e serve a tutelare sia le indagini sia l'indagato»; nello stesso anno, sempre nel 1992, l'allora vicepresidente del Csm Giovanni Galloni diede conferma. Ma, da lì in poi, i magistrati decisero autonomamente che cosa fosse o non fosse il segreto istruttorio: alla fine dell'anno, al Circolo della stampa di Milano, Davigo spiegò la giurisprudenza per come l'aveva capita lui. Disse: «Il segreto è posto a tutela dell'attività investigativa, non dell'onorabilità dell'inquisito».

 

 

 

 

 



NOTIZIA DESECRETATA - Forse il professor Pisapia aveva sbagliato a scrivere. Aggiunse il magistrato: «Semi dicono "sei un ladro" non posso difendermi dicendo "è un segreto", ma dimostrando che non è vero... Se ® una cosa la sappiamo in tre, e io sono tenuto al segreto altrimenti commetto un reato, un altro è tenuto al segreto altrimenti commette un illecito disciplinare, ma il terzo non è tenuto al segreto, allora la notizia non è più segreta». Chiaro. Quasi. Nel caso, i verbali di Amara però non li conoscevano in tre: Davigo ha fatto in modo che fossero di più. Lui ritiene di non aver violato norme, e tantomeno di c'entrare qualcosa col passaggio dei verbali a giornali amici fatto proprio dalla sua segretaria. Vedremo se la nuova giurisprudenza la scriveranno a Brescia, o se il gup deciderà diversamente. La fiducia di Davigo nella giustizia resta immacolata. Ha la nostra invidia.

 

 

 

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