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Giustizia, se la tv ne parla i processi durano di più: un brutto caso tutto italiano

Pieremilio Sammarco
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Nei prossimi giorni si discuterà ancora alla Camera lo schema di decreto legislativo (Atto n. 285) sul recepimento della direttiva 2016/343 sulla presunzione d'innocenza; il legislatore europeo, a tutela degli individui, stabilisce che essa è violata quando vi sono dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità (magistrati e forze dell'ordine) che presentino l'indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata con sentenza definitiva. Questa regola di civiltà giuridica tenta di porre fine alla spettacolarizzazione dell'azione penale e che dovrà essere introdotta anche nel nostro ordinamento è contrastata da quanti invocano il pieno diritto di informare la collettività sulle indagini in corso, favorendo la pubblicazione degli atti di indagine, anche quando vi sono circostanze prive di rilievo giuridico.

 

 

 

Al di là delle pacifiche critiche verso la spettacolarizzazione dell'azione penale che calpesta il principio di presunzione d'innocenza e la dignità di quanti si trovano invischiati a vario titolo nei processi, c'è un altro aspetto, assai poco esplorato, che concerne l'influenza di questa valanga informativo-mediatica sul libero convincimento del giudice che si trova a decidere un caso iper attenzionato dai media. La giurisprudenza, in numerose pronunce, ha sempre rifiutato l'idea che l'opinione pubblica potesse condizionare un processo in corso, affermando che «le campagne di stampa, quantunque accese, astiose e martellanti non sono, di per sé, idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che per ciò solo ne resti menomata la sua indipendenza di giudizio o minata la sua imparzialità» (Cass. pen. 23962/2015).

Ma sebbene le nostri corti rifiutino l'idea che la propalazione mediatica degli atti del processo (per lo più quelli dell'accusa) possa influenzare il convincimento del giudice, alcune ricerche condotte in ordinamenti stranieri mostrano il contrario. Si è dimostrato che l'opinione del giudice può essere - anche inconsapevolmente - suggestionata o condizionata nella sua delicata attività di accertamento della fattispecie e valutazione del suo aspetto sanzionatorio da un flusso informativo proveniente dai media.

 

 

 

 

Le ricerche hanno registrato una diversità di trattamento tra i processi a rilievo mediatico e quelli che ne sono privi, propendendo dunque per una certa permeabilità delle decisioni giudiziarie all'influenza degli organi di informazione. I dati che sono stati estratti dall'analisi della casistica giudiziaria (su oltre due milioni di sentenze delle corti statali statunitensi in un arco temporale lungo venti anni) riportano queste tendenze riferite al processo con rilievo mediatico: a) una sentenza più estesa: ciò è dovuto alla maggiore cura che il giudice presta proprio perché si trova ad affrontare un caso con risonanza mediatica che produce in lui la consapevolezza che il provvedimento sarà oggetto di una disamina approfondita da parte di una platea ampia, comprendente anche gli organi di informazione. b) durata più a lunga dei processi per gli stessi reati privi di interesse da parte degli organi di informazione: le motivazioni sono le stesse del punto precedente. c) pene più alte per i condannati: la pena inflitta al condannato è generalmente più elevata, di una media di 6 mesi di reclusione in più rispetto ad analoghi processi che non hanno destato l'interesse mediatico.

Naturalmente, proprio il tema della sanzione è centrale e ci si trova così dinanzi ad una preoccupante disparità di trattamento. Questi riscontri incidono su due aspetti: il primo che, al di là della declamata impermeabilità delle corti all'influenza mediatica, quest' ultima, forse anche inconsciamente, produce degli effetti sia sul giudice che si trova a dover decidere la vicenda e sia sull'attività processuale in senso lato; il secondo, invece, è di carattere più generale e riguarda il principio di uguaglianza di tutti dinanzi alla legge ed alla sua applicazione, giacché, come sembra, nella prassi giudiziaria, a causa di questi fattori esterni, le disparità esistono.

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